Pubblicato sul manifesto il 15 luglio 2014 –
Mi ha colpito una osservazione di Ida Dominijanni su facebook: di fronte al riesplodere del conflitto tra israeliani e palestinesi, un sentimento di sgomento e di impotenza tale da generare una reazione fatta di silenzio.
Ho provato anch’io qualcosa di simile: un sentimento acuito dallo spettacolo di una discussione nostrana tra i sostenitori di una parte e dell’altra che diventa sempre più violenta e volgare, aggiungendo un piccolo orrore domestico al grande orrore che si consuma tra Israele e Palestina. Ma essendomi vincolato qui a prendere la parola su una parola, non posso fare a meno di parlare di quello che succede a Gaza.
La parola su cui forse meditare è vittime. Penso ai tre ragazzi ebrei rapiti e uccisi. Al ragazzo palestinese ucciso per vendetta. A tutti gli uomini, le donne, i bambini uccisi in questi giorni dalle bombe israeliane. Alcune di queste bombe, per raggiungere i sotterranei in cui si nascondono i militari di Hamas, penetrano in profondità provocando piccoli terremoti che devastano tutto in superficie. Ho letto degli avvisi, con volantini e messaggi telefonici, che l’esercito israeliano invia alla popolazione civile: scappate perché tra 5 o 10 minuti bombardiamo. C’è qualcosa di veramente angosciante nella manifestazione della consapevolezza che si ammazzeranno persone innocenti, ma che la loro vita vale solo qualche minuto. Né questa violenza enorme può farci rimuovere che anche i razzi – rudimentali o perfetti – che lanciano i militari di Hamas, o di altre formazioni estremiste, hanno come obiettivo cittadini inermi.
L’ orrore e lo sgomento aumenta per il fatto che le vittime palestinesi oggi sono sacrificate dagli israeliani, un popolo che ha lo statuto storico di vittima. Non posso rimuoverlo neppure per un momento: la tragedia che dalla fine della seconda guerra mondiale si è aperta in Palestina è il frutto dello sterminio, del genocidio che la civilissima Europa ha perpetrato contro gli ebrei, e della loro scelta di sopravvivere nella forma di uno stato autonomo.
Ha fatto discutere il recente libro di Daniele Giglioli Critica della vittima, che non ho ancora letto. Ho letto invece un altro testo di alcuni anni fa, Lo sguardo della vittima. Nuove sfide alla civiltà delle relazioni, a cura di Alessandro Bosi e Sergio Manghi, con diversi lucidi contributi sulla centralità dello “statuto” della vittima nel mondo attuale, con il concatenarsi dell’ indignazione, della riparazione e del perdono nel discorso pubblico, politico, religioso. Con l’acuirsi della contraddizione tra la solidarietà verso la vittima, e il capovolgersi di questo sentimento in una sorta di invidia per lo statuto simbolico e morale superiore che possono assumere i soggetti storicamente vittimizzati. Quel testo è dedicato non per caso a Carmine Ventimiglia, uno dei primi uomini a studiare in Italia la violenza sessuale maschile.
Il dramma degli ebrei e dei palestinesi continua a produrre vittime e indignazioni opposte, ma non ha dato luogo a una riparazione, né a forme di perdono e di stabile riconciliazione.
Non basta condannare la violenza dello stato di Israele, o quella di Hamas. E’ ancora più grave l’incapacità dell’Europa. La tutela di Israele è stata delegata agli Usa. Gli europei si sono divisi senza impedire la guerra in Irak, fonte della attuale catena di orrori. Continuiamo a ripetere che devono esistere due stati indipendenti. E se fosse un’utopia sbagliata? Ebrei, cristiani, musulmani, hanno radici religiose simili. La nostra cultura è figlia di un secolare scontro e incontro col mondo musulmano. Gerusalemme, capitale aperta al mondo di un nuovo stato di tutti.