Pubblicato sul manifesto il 29 luglio 2014 –
La parola concordia fa pensare al latino cum corde, vale a dire con il cuore, dal profondo del cuore. Dunque c’è l’idea di un accordo che non è motivato solo da una convergenza di interessi o dal riconoscimento di un diritto, ma è sorretto da sentimenti profondi, condivisi. Nell’antica Roma Concordia era anche la dea che ispirava il benessere politico, le buone relazioni tra i cittadini.
L’immagine del relitto della Concordia che approda nel porto di Genova dopo essere stato raddrizzato e rimorchiato con una brillante operazione tecnica è stata più o meno enfaticamente utilizzata come metafora di un paese, di una comunità che è capace di rialzarsi e di rimettersi in cammino dopo una caduta, e una colpa, molto gravi.
Da vecchio genovese faccio gli auguri alla mia città, ciclicamente afflitta dall’idea di un destino grigio, di un colpevole declino, ma anche capace di reagire con grande energia e creatività nei più difficili tornanti della sua storia, soprattutto quando coincide con quella dell’Italia e del mondo.
Ma la visione di quell’enorme rottame tenuto faticosamente a galla mi ha fatto pensare a quanto si disastrata, non solo in quel di Genova o di Piombino, l’idea stessa di una possibile concordia tra cittadini e tra popoli. Come reagire agli orrori di cui siamo testimoni? Che cosa è nelle nostre mani per opporci con qualche efficacia al prevalere della violenza, che finisce per colpire i corpi e le ragioni dei più deboli?
Su questo giornale ne ha scritto Giuliana Sgrena, immaginando che sia necessario e possibile realizzare a Gaza e in Israele una presenza fisica capace di interporsi tra l’esercito israeliano e Hamas. Ministri e parlamentari europei, delegazioni di volontari. Credo che bisognerebbe avere il coraggio di riprendere gli appassionati discorsi di Alex Langer sulla necessità di costituire corpi culturalmente, politicamente e tecnicamente attrezzati per intervenire nelle aree di conflitto per contrastare la violenza che assume connotati di mostruosa ingiustizia ( il che ormai sembra la regola ).
C’è poi una battaglia politica e culturale da condurre: sul Corriere della sera Ernesto Galli della Loggia sollevava – in questo giustamente – il problema delle violenze e persecuzioni contro i cristiani. Ma il suo discorso sembrava esaurirsi nella denuncia di una colpevole paura occidentale dell’estremismo islamico. Il fanatismo e il terrorismo vanno certamente combattuti, ma non si vinceranno mai se non ci si interroga fino in fondo sulle radici e le ragioni della crescita di tanto odio. E il comportamento dell’Occidente, non solo negli ultimi secoli, ma anche negli ultimi decenni, ha molte cose da rimproverarsi nella generazione di questo odio. È la domanda rimossa dall’11 settembre 2001.
Ma ci vuole anche qualcos’altro. Daniel Barenboim, un musicista molto amico di Edward Said, con in tasca sia il passaporto israeliano, sia quello palestinese, ha scritto che la pace ci potrà essere solo quando da una parte e dall’altra ci sarà accoglienza, nel cuore, dei sentimenti patiti da ognuno. Nel suo ultimo libro Martha Nussbaum (Emozioni politiche, il Mulino ) spiega “perchè l’amore conta per la giustizia” e comincia citando Le nozze di Figaro di Mozart: una nuova civiltà è fondata non dal virile “conflitto di classe” tra il barbiere e il Conte suo avversario, ma dalla relazione tra Susanna e la Contessa, capaci di comprendere, con-patire, reagire e se necessario perdonare. Una forza di interposizione, pur necessaria, basterà a produrre concordia se non sarà animata da questi sentimenti?