No one is safe in Pakistan. Nessuno è al sicuro in Pakistan. Questo oggi l’attacco di uno dei molti commenti pubblicati sui quotidiani locali due giorni dopo l’attentato all’eroporto di Karachi, che è costato la vita a circa 29 persone (militari, poliziotti, funzionari e dieci attentatori). Un attacco iniziato domenica sera, che ha tenuto in scacco la struttura per oltre cinque ore, paralizzando il traffico aereo del più grande hub del paese, scenario continuo di rappresaglie da parte di gruppi armati e bande ribelli che dominano in città.
Per un caso non ero in quell’aeroporto domenica e in una Lahore ancora addormentata per il grande caldo non si percepiscono eco: i soliti check point, la solita sorveglianza armata. Pure tutti si chiedono come sia potuto accadere. Ogni volta che parto o torno in Pakistan i controlli agli eroporti sono estenuanti: bagagli visto, timbri su timbri per ogni carta di imbarco e bagaglio, anche se non siamo a Heathrow o Francoforte, qui ci si limita a uno scanner leggero che non rileva nemmeno i fermagli di ferro dei sandali. Ma questa volta a Karachi è andato diversamente: un commando armato è entrato dal perimetro esterno della struttura, lato hangar, e le cronache riportano che le armi sono state fatte entrare in gran numero e in precedenza, buste di plastica con frutta secca ritrovate sul terreno indicano chiaramente che i terroristi erano pronti a un attacco prolungato. Il TTP (Tehreek-Taliban Pakistan) ha rivendicato l’attentato, motivazione: l’aeroporto di Karachi è snodo cruciale per gli USA e i suoi droni; alcuni giornali riportano che le armi ritrovate sono di provenienza indiana. Ma lo stesso qeroporto è anche approdo per migliaia di persone, per il business di un paese, che oltre a essere sotto minaccia costante, è messo a dura prova dalla mancanza di corrente elettrica, di sistemi di sorveglianza aerea avanzati. Il ministro dell’aviazione ha presentato le sue dimissioni, il governo ha esecrato la strage, ha promesso più sicurezza; i più critici hanno puntato il dito contro gli attivissimi servizi segreti che pure non hanno saputo prevedere la minaccia.
Ma nelle stesse prime pagine ho trovato anche notizia di 24 pellegrini della minoranza religiosa Shia Hazara, uccisi in due hotels vicino la città di Taftan (Quetta), 3 morti e 10 feriti in Waziristan a Miramshah, due fratelli uccisi sempre a Karachi in un attacco settario.
E non c’è dubbio che gli stessi pakistani siano oramai sotto assedio, che i tavoli di mediazione tra governo e talebani (oramai provvisti di portavoce e siti web) siano un fallimento, che due mesi fa un amico poliziotto è salito come me su un autobus di linea con la sua pistola di ordinanza e nessuno lo ha fermato, così lui ha fatto scendere tutti i passeggeri e chiesto di ricontrollare persone e bagagli.
Pure qui, a Lahore, mi preoccupo di ripulire la casa in cui sto vivendo, cerco di far funzionare i condizionatori, e amici con cui cenare stasera, dove seguire la prima partita dell’Italia ai mondiali del Brasile. Mi sono venuti alla mente i racconti di mia madre quando ero bambina e le chiedevo di come fosse la vita quotidiana a Napoli, bambina anche lei. E la risposta era sempre la stessa, sorprendente all’epoca per me: nulla, una vita normale, andavamo a scuola, al cinema e quando suonava la sirena per i bombardamenti si correva ai rifugi. Poi un giorno siamo tornati a casa ma il palazzo non c’era più.
Qui non suonano sirene, la preoccupazione per la responsabilità di avere tante/tanti stranieri è sempre alta, ma le sirene non suonano.
(nella foto: una piantina dell’aeroporto di Karachi)
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