La vicenda è stata seguita da tutti i pakistani come la telenovela turca “Mera Sultan”, che qui ha milioni di telespettatori. Due giorni fa il leader del Pakistan Awami Tehreek (PAT) Tahirul Qadri è tornato in patria dal Canada per sfidare il partito di maggioranza PML-N: il governo gli aveva intimato di non atterrare a Islamabad ma a Lahore, perché molti sostenitori si stavano preparando a una grande manifestazione, già vietata in anticipo.
L’antefatto: la scorsa settimana la polizia ha attaccato i supporter di Qadri, che da anni ha barricate di protezione davanti la sua residenza a Lahore: alcune ore di combattimenti, circa venti morti da ambo le parti, numerosi i feriti. Le teste sono cadute e il primo ministro Nawaz Sharif ha promesso zero tolerance. Ieri Qadri è rimasto sull’aereo Emirates all’aeroporto di Lahore per ore negoziando con i governatore del Punjab per avere una scorta garantita e lo stesso lo ha accompagnato: autostrada Islamabad-Lahore chiusa al traffico, linee telefoniche silenziate, scontri all’aeroporto tra supporter e polizia.
La vicenda è più complessa della mera cronaca, che pure non è cosa da poco. Infatti ci sono voluti più di dieci giorni perché su uno dei principali quotidiani pakistani, The Express Tribune (www.tribune.com.pk/pakistan ), comparissero commenti di ampio respiro dopo l’attacco all’aeroporto di Karachi, che durante la sera dell’otto giugno ha tenuto occupato l’esercito e la polizia per diverse ore con un bilancio di 19 morti e più di 40 feriti.
Non stupisce che i giornali italiani ne abbiano dato una menzione stringata: dire Karachi è come parlare delle bande nelle favelas di Rio, sempre la stessa storia. Ma questa volta non è proprio o solo così. L’attacco da parte dei talebani al maggiore hub del paese è avvenuto di sera e non di notte, lato hangar, dove gli attentatori hanno avuto tutto il tempo di depositare prima le armi e del cibo (si aspettavano dunque un combattimento lungo) e forse sarebbero potuti anche salire su uno degli aerei di linea parcheggiati in quell’area. Il CSI, i servizi segreti pakistani che seguono e spiano qualsiasi cosa si muova o respiri, non hanno saputo prevedere l’attacco; i civili morti sarebbero potuti essere molti, per fortuna non è stato così. Due giorni dopo: annunci di contrattacco, basta negoziazioni con i talebani, la nuova offensiva militare si chiama Zarb-e-Azb, che significa colpo di spada. I militari iniziano a colpire il North Waziristan, culla talebana, gli americani fanno sei morti cacciando con i droni e inizia un esodo di persone verso l’est del paese e Peshawar, che di fatto è un piano di evacuazione. Il Pakistan (il rapporto UNHCR è di due giorni fa) si conferma il paese con il maggior numero di rifugiati del mondo (IDPs), circa 1.600.000, centomila in più dello scorso anno. Sempre sugli stessi giornali l’allarme riguarda la necessità di vaccinare contro la polio – che qui è radicata – migliaia di adulti e bambini. Il numero di civili fuori attualmente fuori dal NW è di circa 400.000.
Tutto questo, a parte l’orrore quotidiano della morte, non desterebbe molto interesse agli occhi occidentali, se non venisse inquadrato in una cornice molto più ampia, che include ciò che avviene in Pakistan in una vastissima area geografica che va dall’Africa alla Tahilandia, fresca di colpo di stato.
E’ toccato a Chris Cork (@Manticore73) , acuto giornalista britannico, ricordare a lettrici e lettori che la “primavera della Jihad” porta a compimento dopo circa duecento anni quanto contenuto nel patto di Sykes Picot, stipulato segretamente da Francia e Inghilterra con l’appoggio della Russia durante la prima guerra mondiale. Obiettivo: la distruzione dell’impero ottomano. Così, proprio come fece con l’Africa Leopoldo del Belgio, i confini di Nord Africa e Arabia Saudita furono interamente ridisegnati.
Oggi quei confini stanno saltando con rapidità impressionante: in Nigeria gli integralisti di Boko Haram hanno il controllo totale del nord del paese: in Libia le stesse tribù che avevano contribuito con la NATO e soci a eliminare Gheddafi hanno sconfessato le recenti elezioni e reclamano il controllo dei loro territori (con buona pace dell’Unione africana e del presidente sudafricano Jacob Zuma, che tanto aveva contribuito alla mediazione ai tempi dell’invasione). Migliaia di mercenari (talebani afghani e pakistani, uomini che fanno parte di bande somale e algerine) combattono quotidianamente in Siria e nessuno sa dove e cosa faranno quando ritorneranno finalmente a casa (in DRC la questione tiene occupata da anni l’ONU), finanziati variamente da Oman, Qatar, Saudi Arabia e molti altri. In Iraq, dove l’ISIS (Islamic State in Iraq and Siria) comanda, gli Stati Uniti hanno ripreso a non dormire. L’ex ambasciatore pakistano in Iraq Najmuddin A. Shaikh sottolinea come sia impossibile per il Pakistan mantenere alcuna neutralità nelle dispute interreligiose anche quando queste interessano altri paesi, se l’obiettivo di Zarb-e-Azb è combattere “il terrorismo di ongni colore”. Non ultimo, tre giorni fa in Afghanistan il presidente Karzai ha chiesto l’annullamento dei risultati elettorali, causa brogli e implicazioni della commissione elettorale negli affari dell’opposizione.
Il Pakistan è geopoliticamente affondato fino al collo ed è parte integrante di questo scenario: non può più volgere le spalle all’India, avendo perso l’occasione economica di cavalcare anni fa l’onda del BRIC e con l’avvento del nuovo premier indiano Narendra Modi non potrà evitare nuovi confronti; deve fare i compiti a casa per gli Stati Uniti (che sborsano milioni di dollari in settori pubblici e privati, oltre che nella difesa) ai confini afghani (lunghi circa 3500 km, vale la pena ricordarlo), senza poter ignorare che il terrorismo abita nelle madarasse e sulle montagne di entrambe i paesi. Deve mantenere un nuovo ordine interno e coordinare la sicurezza nazionale, il controterrorismo, l’ordine pubblico. E in questi giorni la battaglia alla Camera per la ripartizione del bilancio di stato e delle province dà filo da torcere.
Un motivo in più per non dormire, una occasione migliore per provare il cambiamento.
Monica Luongo