Pubblicato sul manifesto il 17 giugno 2014 –
Può essere ancora il lavoro il luogo principale della formazione dell’identità, della coscienza di sé e del proprio rapporto con gli altri e il mondo, senza di che non c’è politica?
Sono andato alla prima puntata del “Mese di sociale” del Censis sul tema “il vuoto della rappresentanza degli interessi”. Il vecchio De Rita non condivide affatto la furia iconoclasta del giovane Renzi contro i corpi intermedi: sindacati, associazioni imprenditoriali, camere di commercio, Province, ecc. e contro il rito della concertazione. Ma non si mette tra i conservatori corporativi. Il suo aproccio, più o meno, è questo: va bene, fate pure il vuoto di questi vecchi armamentari inceppati, ma con che cosa li sostituiamo? Credono davvero a Palazzo Chigi che si possano fare le riforme via internet? (Tra l’altro: nessuno finora ha chiesto a Renzi e alla ministra Madia chi ha letto le 40 mila e-mail giunte dal pubblico impiego: il Censis ha offerto provocatoriamente la sua consulenza…).
Ma la discussione è partita da una bella analisi di Ester Dini, del Censis. Un solo dato: tra persone che cercano lavoro, persone che lo perdono, che lo svolgono in modo precario, lontano dai centri aziendali, che mutano professioni e mansioni ecc. ogni 100 posti fissi ce ne sono oltre 66 “in transizione”. Quasi 9 milioni di uomini e donne. Se si aggiunge che più del 50% dei giovani occupati fatica solitariamente in quel “lavoro ibrido” tra il tradizionale impiego dipendente e il lavoro autonomo imprenditoriale e professionale, si capirà perché la risposta del Censis alla nostra domanda iniziale sia tendenzialmente negativa: no, non è più il lavoro a costituire le identità personali e collettive. E qui è la radice della crisi delle tradizionali rappresentanze degli interessi – sia sindacali che imprenditoriali – dentro cui Renzi affonda la sua lama decisionista come nel burro.
Naturalmente ci sono stati dei distinguo: Cesare Fumagalli (Confartigianato) scommette sulla capacità di rinnovamento grazie ai suoi 14 mila punti organizzati sul territorio. Stefano Micelli (Fondazione Nordest) sostiene la forza dei nuovi artigiani-digitali, che con i loro 400 miliardi di export reggono l’economia che tira, e dove l’attaccamento al lavoro ritorna perché è un lavoro che piace, appassiona (in un clima idilliaco tra padroni e operai?). E si appropria della tematica dei commons: per fare rete e rappresentanza servono luoghi e beni comuni sul territorio, spazi di coworking per socializzare conoscenze e tecnologie nell’epoca delle stampanti tridimensionali. Ora che il fordismo è finito sul serio.
Cambio di scena il giorno dopo, alla presentazione del libro di Iginio Ariemma La sinistra di Bruno Trentin (Ediesse) con Bruno Ugolini e Sonia Merzetti. Si è molto parlato di un rischio di oblio per il dirigente-intellettuale della Fiom e della Cgil, che aveva fatto della libertà nel lavoro e per mezzo del lavoro lo scopo e la passione della vita. In genere poco compreso tanto dalla destra amendoliana quanto dagli operaisti e dagli ingraiani.
Nel suo libro più importante, La città del lavoro, del ‘97 (ora ripubblicato da Firenze University Press) Trentin aveva cercato di prendere sul serio la fine del fordismo, tanto ideologicamente annunciata, scommettendo su una nuova identità operaia fondata sul sapere, sulla libertà, sui diritti. Su un’altra idea di socialismo inteso come processo di liberazione e non come potere statale. Nell’”anno della memoria rossa”, tra Togliatti, Berlinguer e i 90 anni dell’Unità, farebbe bene alla sinistra, in cerca di identità, riandare anche a quella lezione.
Renzi tra l’altro, da buon cattolico, ha annunciato che si riaprono le scuole di partito…