Pubblicato sul manifesto del 13 maggio 2014 –
Gli spazi della Città dell’Altra economia, nell’ex mattatoio di Roma, sono accoglienti in una molteplice confusione alternativa, specialmente in una bella giornata di sole. E specialmente se il luogo diventa – come capita spesso – occasione di una discussione ricca di idee e di passioni.
E’ successo sabato scorso intorno al nuovo testo proposto dalle femministe del gruppo del mercoledì (pubblicato anche sul manifesto di giovedì 8 maggio) che declina il valore contemporaneamente relazionale e conflittuale della cura nel contesto della battaglia politica per affermare una nuova idea e una nuova realtà di ciò che intendiamo per Europa.
Spero che si riesca a produrre un resoconto dettagliato di questa discussione. Qui segnalo il valore che nell’elaborazione e negli scambi ha assunto la parola resto. Il resto della cura – hanno argomentato in molte (da Elettra Deiana a Ida Dominijanni, Letizia Paolozzi, Maria Luisa Boccia, Alisa Del Re, solo per citarne alcune) – è ciò che nel lavoro di cura, nelle attività necessarie per la riproduzione della vita, non può essere sussunto dalla logica del mercato e delle procedure di governance oggi informate dal neoliberismo.
E’ una sorta di nucleo ( in matematica il resto è indivisibile) del nostro rapporto con il mondo in cui si condensano, anche contraddittoriamente, i desideri, i sentimenti, i bisogni che muovono le relazioni con gli altri, e anche con le altre cose. Che nella loro forma più profonda sono relazioni di cura.
Se un primo gesto del femminismo storico è stato quello di rifiutare la cura come un destino e un obbligo femminile, un limite alla propria libertà, un secondo movimento – non per caso riparte da donne – rilancia l’indispensabilità della cura come un grimaldello simbolico, quindi politico, contro l’incuria delle vite e delle cose che oggi è aggravata dalla brutalità di un capitalismo che ha perso anche l’ascendente della legge patriarcale.
La linea del conflitto è difficile e ambigua perché – come ha insistito Dominijanni – il rischio che la cura femminile sia ancora una volta recuperata in funzione di supporto, di “accudimento” all’ordine dominante è ben presente. E’ lo stesso rischio che incombe sulle molteplici esperienze che reagiscono alla crisi e all’austerità scegliendo – nei quartieri, nelle social street, nelle pieghe di altri modi di consumare e produrre – nuovi stili di vita e di relazione. Le perle della cura, dice qualcuna.
Eppure è da quel resto che forse è possibile ripartire, per connettere – parole di una trentenne – il guadagno di libertà personale ereditato alla capacità di agire collettivamente per cambiare lo stato presente, pessimo, delle cose, ma al riparo da nuovi equivoci identitari.
Una novità sembra essere che anche gli uomini cominciano a riconoscere questo punto di leva.
Andrea Bagni, insegnante che non rinnega il “mito giovanile” del ’68, lo vede nelle relazioni ricche e felici – nonostante i mille ostacoli burocratici, aggirati con quotidiana destrezza – con studenti e studentesse della sua scuola. Il conflitto può anche ripartire da un atteggiamento che non si vergogna di nominare questo tipo di “amore per il lavoro”. Del resto proprio i giovani delle scuole e delle università, constatando quanto poco conti il valore di scambio dei loro titoli di studio e del loro sapere nel deserto del precariato, ne vanno riscoprendo tutto il valore d’uso. Ma per noi uomini imbracciare la cura come una imprevista arma di battaglia implica (lo ha detto Stefano Ciccone) anche una “nuova rappresentazione del nostro corpo”.