In nome della protezione. La scorsa settimana il Parlamento pakistano ha approvato – contrari tutti i partiti all’opposizione – il PPA (Pakistan Protection Act), che conferisce all’esercito ulteriori poteri e libertà in nome della lotta al terrosimo e con buona pace dei diritti umani e di ogni convenzione inernazionale ratificata dai governi precedenti. Per esempio la detenzione fino a 90 giorni di persone in località sconosciute senza comunicare loro la ragione del fermo. La reazione è stata dura da parte dell’opinione pubblica, ma non si sono viste grandi manifestazioni di piazza, che d’altra parte non si vedono nemmeno per altre cause. Qui con la forza pubblica non si scherza, e la paura dei cittadini è sempre molta e assolutamente motivata. I poliziotti della Elite Force indossano una maglietta nera su cui è scritto NO FEAR, nessuna paura, e il messaggio vuole essere incoraggiante (non abbiamo paura, non abbiate paura) ma qui nessuno ci crede.
Le donne in Parlamento. Nel Parlamento pakistano le donne coprono il 33% dei seggi (ottenuti con una lista-ghetto riservata solo alle donne e con le candidature blindati dai partiti), impegno raggiunto nel corso delle ultime elezioni (2013), ma ratificato dal paese già ai tempi della Conferenza Mondiale delle Donne di Pechino (1995). Qualche giorno fa l’attivista Marvi Sirmed scriveva sul quotidiano The Nation che il lavoro delle donne in Parlamento è sottovalutato e caricato di stereotipi, sebbene le parlamentari si facciano attualmente carico del 60% dei lavori. In pratica a livello provinciale (il Pakistan ha un governo che lascia ampia autonomia alle amministrazioni locali) le strategie maschili per ridurre le possibilità di intervento delle donne nella cosa pubblica sono numerose, tra cui il non obbligo di presenza nelle sedute provinciali. Così le donne hanno deciso di estendere il Caucus nazionale anche a livello provinciale, per decidere l’agenda e le priorità al di là dell’appartenenza partitica: nel Khyber Pukthunkhwa lavorano contro la discriminazione delle donne in politica; nel Sindh a un piano strategico provinciale; in Baluchistan stanno integrando le tematiche trasversali di gender nell’agenda di sviluppo locale; in Punjab il piano di sviluppo quadriennale.
Chi decide. Il mio amico T. Mi dice spesso che le donne pakistane decidono tutto: quali nomi dare ai propri figli, quali scuole faranno, chi sposeranno. I figli, appunto, ovvero la casa, la gestione della sfera privata. Credo sia vero, anche perché fuori da lì contano ben poco, e dentro le mura esercitano il potere dei questurini nelle carceri: quel poco di autorità che hai lo usi a tuo beneficio personale oppure la consumi in estenuanti faide interne con suocere e cognate. Senza voler prendere nessuna posizione cerco di capire come la parola potere, intesa non solo nella sua accezione autoritaria, ma anche in quelle che include le potenzialità individuali, riesca a esprimersi; non c’è dubbio che un cambiamento non evidentissimo ma costante è in corso nel paese e anche che questo prenderà facce diverse da quelle a cui siamo abituati in occidente o che abbiamo visto a piazza El Tahir o a Taksim. Ma credo che la porosità e la pervasività tra la dimensione degli spazi pubblici e privati non si possa eludere. Così caro T. non credo che le donne abbiano molto potere: tu puoi uscire senza dare spiegazioni quando lavori, sei stanco o annoiato. Loro ancora no.
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