Pubblicato sul manifesto il 1 aprile 2014 –
Se si consulta un dizionario italiano la parola genere rimanda ad almeno una decina di significati diversi (dalla grammatica all’arte, le scienze, la filosofia…). Solo alcuni si riferiscono alla differenza dei sessi e delle identità sessuali. In inglese, gender, non solo evoca immediatamente i diversi generi sessuali, ma spesso è utilizzata per riferirsi a una specifica teoria sull’identità sessuale, che ne sottolinea soprattutto il carattere di costruzione culturale e sociale. Il cardinale Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana, ha recentemente affermato che nella scuola italiana si rischia una “dittatura” della teoria del gender, solo perché sono stati distribuiti agli insegnanti alcuni opuscoli che raccomandano attenzione alle diverse identità sessuali per prevenire omofobia e bullismo. Sarebbe una “dittatura” rivolta principalmente contro la famiglia “naturale”.
Non ho ancora letto questi testi, che sono stati prontamente ritirati. A Roma ambienti ecclesiastici e organizzazioni cattoliche estremiste come Militia Christi, brandendo l’accusa di Bagnasco, hanno attaccato il Comune perché ha sostenuto un corso di formazione per insegnanti sul tema della differenza sessuale.
Penso che non bisognerebbe rispondere a questi attacchi con una contrapposizione frontale, ma invitando le persone di fede cattolica a un confronto aperto. Del resto mi sembra giusto che nella scuola, specialmente se pubblica, ci sia dibattito, e non il ricorso alla censura solo perché la invoca Madre Chiesa. La quale, tra l’altro, è scossa da una dialettica interna provocata dalle posizioni assai aperte che papa Francesco sta promuovendo anche sul tema “sensibile” del mutamento delle famiglie e delle identità sessuali. D’altra parte mi sembra un estremismo ideologico-burocratico anche eliminare dai documenti scolastici le parole padre e madre, sostituendoli con diciture come genitore 1 e 2.
Qualche sera fa ho visto a Roma il bel documentario realizzato dalla regista Elisa Amoruso, Fuoristrada. Il titolo evoca il percorso del protagonista, Pino, un meccanico romano appassionato di gare nel fango con grossi fuoristrada, che arrivato a 60 anni decide di uscire anche personalmente dalla strada maestra della “normalità” sessuale presentandosi nella sua officina in minigonna, con l’ombretto, con il seno in evidenza. Pino si rivela finalmente al mondo come Beatrice, il nome e l’aspetto in cui si riconosce. Una donna che però non rinuncia completamente al corpo maschile: si innamora di Marianna, immigrata rumena, e la sposa. Il paradosso della vita di Pino-Beatrice è che da giovanissimo maschio fa l’esperienza di un matrimonio rapidamente fallito, e di una paternità naturale altrettanto mancata. Mentre da persona matura Beatrice si prenderà paternamente cura del figlio adolescente di Marianna, Daniele. E nella storia compaiono sullo sfondo altre paternità mancate, quando non violente: vale per il padre rumeno di Daniele, e per quello, sconosciuto, dello stesso protagonista.
Il film è uno spaccato di vita popolare e di sentimenti positivi, anche se difficili, tra persone (c’è anche l’anziana mamma di Pino-Beatrice) e verso gli animali. Finita la proiezione e dopo gli applausi il meccanico Beatrice parla col pubblico. Qalcuno chiede se abbia mai voluto svolgere un ruolo materno. La risposta: sì l’ho desiderato, ma ho riflettuto che madre non potrei mai esserlo, e allora ho cercato di fare bene il padre per il figlio di mia moglie. Pur essendo Beatrice.
A quel punto ho pensato: ecco una testimonianza e una discussione che vedrei volentieri anche tra le mura di una scuola, tra laici, cattolici, e altri e altre ancora.