Pubblicato sul manifesto il 4 febbraio 2014 –
Siamo, forse, tutti contenti per l’Oscar assegnato alla Grande bellezza di Sorrentino e Servillo. Per chi, come me, ha visto il film e ne è rimasto contraddittoriamente affascinato, la soddisfazione è velata proprio da quella forte sensazione di malinconia e di decadenza che il messaggio di Jep Gambardella comunica. Abbiamo tesori, noi italiani, dai quali non sappiamo trarre vantaggio per riempire le nostre vite e il nostro modo di stare insieme. Forse sono troppo più grandi di noi? Giganti enormi, sulle cui spalle la nostra poco calviniana leggerezza scompare?
Tralascio il senso di fastidio che mi procura la retorica mediatica – complice il sanremese fazismo – sull’occasione economica che si aprirebbe al belpaese in grave crisi grazie alla propria Grande bellezza dimenticata. Penso sia anche vero, però la cantilena ripetuta sempre uguale annoia.
Ma questo film è davvero il capolavoro che merita l’Oscar?
Non essendo un critico cinematografico, mi astengo.
Ho pensato, invece, a un significato rimosso (segno dei tempi?) della parola capolavoro. In questo termine automaticamente assegnato all’eccellenza artistica si nasconde – neanche tanto, stando alla lettera – quell’altra parola, lavoro, e, dizionario alla mano, si può facilmente apprendere che capolavoro era anche detta la prova finale che l’apprendista operaio doveva produrre per ottenere l’assunzione.
Recentemente, parlando della cura, mi è capitato di citare la cultura degli operai specializzati genovesi (ma esistevano e forse esistono in tante altre città dell’Italia e del mondo) che sulle capacità professionali altissime basavano anche la loro forte autorità sociale e politica. Un’amica fotografa che partecipava al dibattito, Paola Mattioli, mi ha mandato il catalogo da lei realizzato di una mostra del 2003 organizzata dalla Società Umanitaria milanese, intitolata Un lavoro a regola d’arte, a cura di Roberto Borghi. Vi si ammirano una serie di immagini di metallo lavorato con geometrie singolarmente espressive, opere d’arte contemporanea – si direbbe senza dubbio – mentre si tratta dei pezzi saldati dagli operai intenti a presentare i loro capolavori sperando nell’assunzione.
Non sono nemmeno un critico d’arte. Ma la visione di queste fotografie mi ha spinto a qualche riflessione. Quegli operai genovesi, alcuni dei quali ho avuto la fortuna di conoscere personalmente, tornivano il loro pezzo ad arte, non importa se poi era destinato a un cannone (certo, volevano cambiare il mondo, ma con altre procedure). Che una saldatura possa assumere un significato estetico può suggerirci che un prodotto va costruito possibilmente ad arte, ma ponendosi sin dalla sua ideazione il clamoroso quesito: a che cosa e a chi serve?