Questa volta le donne vengono prima degli immigrati e dei giovani. Ma a differenza della celebre vignetta di Altan (“Non mi ricordo piu’ se veniamo prima dei disoccupati e dopo i giovani o tra il mezzogiorno e i pensionati”) non si tratta di un elenco di categorie subordinate e perdenti, ma delle “soggettualità emergenti” sulle quali riposano le poche speranze di superare la crisi. Almeno secondo il Censis.
Ieri si è celebrato a Villa Lubin a Roma, sede del Cnel, il rito annuale della presentazione del “rapporto sulla situazione sociale del paese”, giunto alla 47esima edizione. Una coda di venti minuti che si allungava fuori dall’edificio per avere il testo e ascoltare il verbo del sacerdote De Rita. Forse sta aumentando la fame di senso nel disgraziato belpaese?
I ricercatori del Censis offrono comunque il loro pane, e non è da buttar via. Gli italiani a quanto pare hanno reagito alla crisi così lunga e dura concentrandosi sulle pratiche di sopravvivenza, e sembrano essere riusciti a superare il rischio del baratro. Riducendo i consumi, risparmiando, allungando le reti di solidarietà familiare (piccoli i nuclei, ma ramificati in una decina di persone per famiglia, con una media di 300 euro al mese investiti per aiutare figli, nonni ecc.), dando occasioni al rifiorire dei mercatini rionali e delle attività del commercio ambulante e dei negozi al dettaglio.
Ma non è stata solo sopravvivenza. A parte la buona performance industriale, con solide esportazioni in tutto il mondo di imprese e artigiani che adottano nuove tecnologie, alcuni soggetti si sono dati molto da fare. Le donne hanno aumentato – mentre intorno tutto crollava – la consistenza delle loro imprese (quest’anno aumentate di 5000 unità) sono cresciute nelle professioni e anche nel totale del lavoro attivo, a differenza dei maschi.
Si moltiplicano anche le imprese degli immigrati, che in molti casi assumono dipendenti italiani. Mentre più di un milione di giovani con buona formazione vivono all’estero non solo e non tanto perché respinti dal proprio paese, ma anche e soprattutto perché desiderano una vita nel mondo globale. Un capitale che aumenta e che potrebbe interagire bene con un paese che ritrovasse se stesso.
De Rita non è stato tenero con la politica e i media nazionali. E anche con la cosiddetta “società civile”, termine che ha suggerito di abrogare dopo la sterilità di un certo movimentismo moraleggiante. C’è stata la “reinfetazione” – un tornare a meno che neonati – delle forze politiche che si sono sottomesse al presidente Napolitano. Un brutto gioco delle “tre carte”: si è agitato il pericolo del baratro per imporre stabilità a tutti i costi lamentando l’ assenza di adeguata classe dirigente. Ma i tecnici come Monti non hanno saputo risolvere davvero il dramma.
Il risultato è un’Italia sciapa e infelice, o quantomeno malcontenta. Nella quale manca il sale alchemico che produce trasformazione.
Bisogna scovarlo nelle grandi continuità della storia italiana: contadini, mercanti, artigiani, in fondo gli stessi soggetti che crearono la civiltà comunale dopo il feudalesimo. Ma oggi manca la spinta politica capace di riconoscere il fervore nascosto di queste realtà sociali. Eppure secondo il Censis ci sono anche occasioni importanti. Non solo la produzione di cultura (l’Italia, con il suo patrimonio e la sua storia, è vergognosamente indietro rispetto agli altri paesi europei sia in termini di forza lavoro che di consumatori di cultura), ma anche la trasformazione del welfare – che dallo stato onnipresente cambia nel welfare privato, aziendale, comunitario, associativo – e l’espansione dell’economia digitale.
In ogni caso la parola magica è connettività. Queste occasioni si colgono solo se individui e gruppi sanno connettersi, ma ovviamente non è una questione tecnologica ( o solo tecnologica). Le femministe del mercoledì parlerebbero di relazioni e di cura. Un complesso di pratiche che per De Rita già si danno in esclusivo senso orizzontale. Lui non crede che per ora sapranno contagiare i “piani alti” della politica. E sembra difficile anche a noi. Più che il culto della stabilità ci sarebbe bisogno di riconoscere il conflitto che anche la lunga durata della storia italiana ha continuamente riprodotto nei momenti di maggiore vitalità.