Le molte, troppe chiacchiere sul femminicidio non producono nulla di buono. Restano chiacchiere, appunto, oppure fanno da cornice ideologica alla presentazione di un disegno di legge come quello del governo in carica, prima firmatario Letta, specchio di una politica che non sa più dare risposta ai problemi di fondo. E neanche sa capire di che natura essi siano. Pacchetto sicurezza: così il disegno di legge viene denominato nel politichese corrente. Un pacchetto che mette insieme svariati e diverse problemi, compresa, tra gli altri, la violenza contro le donne. Uno dei tanti. Il testo prevede l’aumento della pena per chi commette violenza. Possiamo dire che questo è un aspetto scontato, nell’epoca in cui viviamo, poiché l’inasprimento delle pene è considerato da tempo la panacea per tutti i mali del mondo. Si propone anche che la donna che subisce la violenza non possa ritirare la sua eventuale denuncia. Aspetto quest’ultimo particolarmente negativo perché mette in discussione il principio di responsabilità personale della donna rispetto alla dimensione della sua vita personale nel rapporto di coppia. Si attribuisce così allo Stato una responsabilità giuridica che tocca alla radice la faglia densa di inestricabili contraddizioni che, per ogni donna, sta nel rapporto tra pubblico e privato, tra personale e politico. Una dimensione – lo sappiamo bene – spesso opaca, indecifrabile, inafferrabile, non di rado una vera e propria trappola d’amore, non di rado, per quella donna, mortifera. E tuttavia di natura tale da eccedere il rapporto che la legge sul piano generale stabilisce tra lo Stato e i suoi cittadini. Le sue cittadine, in questo caso. Fornire ogni aiuto alla donna che si rivolge allo Stato, fornendole ogni possibile mezzo perché sia lei stessa a rompere la trappola oppure con burocratica scelta unilaterale procedere “per salvarla”. Che se ne discuta, almeno. Seriamente, non per l’assillo di portare a casa il trofeo dell’ennesima legge inutile e dannosa.
Mentre questo accade, l’Accademia della Crusca accoglie nell’empireo della lingua madre il neologismo “femminicidio”, ormai entrato nell’uso corrente, al punto di comparire nel dibattito istituzionale oltre che, in modo crescente, nella comunicazione mediatica. Termine però ancora fastidioso e urticante perché in odore di femminismo e perché, soprattutto, carico di una spiazzante risonanza ancestrale che richiama il rapporto primario tra i sessi e la sua intrinseca ferinità. “Non c’è un’estetica della lingua”, dice, per rispondere alle obiezioni sull’uso della parola, Matilde Paoli, che ha firmato le indicazioni dell’Accademia, “esistono solo parole che prendono piede oppure no”. Femminicidio, aggiungo io, è una di queste e con essa bisognerebbe fare i conti da molti punti di vista. La decisione dell’Accademia è assai istruttiva proprio sul piano linguistico. Accoglie infatti il neologismo chiarendone con sapienza la pregnanza semantica: non un sinonimo qualsiasi che indichi genericamente l’ammazzamento di una persona di sesso femminile da parte di qualcuno. Invece quella specifica tipologia di violenza, stalking, uccisione e altro che abbia a che fare col fatto che quella donna è una donna e chi l’uccide è un uomo. Delitto insomma – va aggiunto per ulteriore chiarezza – che scaturisce intimamente dal rapporto tra i sessi e chiama in causa i modi della sessualità maschile nell’epoca che viviamo: post patriarcale e del tutto implosa, densa di vecchi e nuovi patriarcalismi fuori controllo, frutto della fine del patriarcato e delle conseguenti convulsioni dell’identità maschile. Anche questo argomento di ci bisognerebbe discutere in relazione al femminicidio. Il significante dunque e il significato, all’esame della Crusca. C’è in quel nesso la capacità di rappresentare il forte rovesciamento di prospettiva che lo sguardo femminile ha impresso sulla realtà e c’è un’evidenza che è tipica di molti processi umani di liberazione, quando si afferma una nuova soggettività – di ognuno e di molti – e l’evoluzione culturale che ciò comporta diventa anche giuridica. Che una donna rimanga uccisa durante una rapina in banca o in un incidente sull’autostrada non è la stessa cosa che cada vittima dell’”amore” criminale del suo partner o dell’agguato di uno stalker, o del mercato del sesso e della tratta che fa schiave le donne. Insomma la Crusca ha fatto il suo lavoro e personalmente gliene sono grata così come sono grata a Claudia Arletti che nella sua rubrica “Bioritmi”, su un agostano Venerdì di Repubblica, ha segnalato la novità.
Ma la promozione della parola non può giustificare la torsione compulsiva multi direzionale che intorno ad essa si è sviluppata, con la conseguenza che se ne parla continuamente, a ogni delitto contro una donna – cosa che succede pressoché quotidianamente – ma non si riesce più a cogliere il punto centrale del problema. Il femminicidio non è riducibile a una fattispecie di reato, sempre più da precisare nei suoi contorni, a cui si possa far fronte con nuove o rinnovate forme di pena, con sottili trame di dispositivi di sicurezza, con vademecum polizieschi aggiornabili via via che si mettono in evidenza i mille modi in cui la violenza sulle donne viene esercitata. E’ stato detto e ridetto da molte donne di legge, di cultura, di pensiero politico; da molte che hanno a che fare con i centri di accoglienza, che conoscono la vita delle donne maltrattate. Ma la solfa non cambia. Parlarne, per le più, significa ancora soprattutto chiedere l’intervento dello Stato, la protezione dello Stato, l’autorità dello Stato a baluardo delle vittime. Vittimizzazione delle donne, il contrario di quella libertà femminile che ha avuto la forza di operare il rovesciamento.
E lo Stato, per il tramite delle sue istituzioni, risponde a modo suo, come si risponde oggi, nell’epoca del declino del Welfare e dello stato di emergenza strisciante: con leggi segnate dall’imperante vocazione securitaria della contemporaneità e dal taglio di tutte le possibili spese sociali che vadano oltre quelle elementari. Costo zero. Già il titolo illustrativo del disegno di legge (n. 1540), presentato alla Camera il 16 agosto, manifesta bene l’inadeguatezza politica di chi l’ha confezionato. Si parla infatti, in quel titolo di “disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché di protezione civile e di commissariamento delle province.” Insomma, al di là del burocratese d’ordinanza, siamo di fronte a un orrendo fritto misto, impacchettato entro la cornice rassicurante della parola “sicurezza”. Sono raffazzonate e messe insieme le cose più disparate, con buona pace degli entusiasmi che non poche parlamentari, esponenti politiche e via discorrendo avevano manifestato nei mesi scorsi per gli impegni presi dalla maggioranza, dopo il voto sulla Convenzione di Istanbul. Convenzione che opportunamente offre a livello internazionale uno strumento di intervento culturale e giuridico contro la violenza sulle donne e indica la prevenzione come strumento fondamentale. Ma, come tutte le buone intenzioni, richiede anche una capacità di concretizzazione positiva che sicuramente non trova riscontro nella proposta del governo Letta. Perché il femminicidio non è un’emergenza affrontabile soprattutto per via penale: richiede un radicale cambiamento di ottica, una rivoluzione culturale, lo sforzo di una proposta, un’impostazione di fondo che faccia perno sulla scuola, la formazione, la capacità di inventare i modi di un’educazione sentimentale dall’età più tenera, capace di decostruire i mille stereotipi che ancora sopravvivono, alimentare processi di formazione condivisi, rinnovando forme di relazionalità tra donne e uomini e mettendo in gioco la consapevolezza di quanto pesi positivamente per una società più vivibile il rapporto tra i sessi. Non servono nuove leggi. Serve far funzionare quelle che già ci sono. Non servono task force speciali, serve che quelle che già esistono (le forze dell’ordine) abbiano una formazione adeguata, siano messe in grado di capire, indirizzare, consigliare, tutelare, stare appresso, quando ce n’è bisogno. Ma fino al limite della volontà della donna. Anche il più incomprensibile. Serve per questo personale appositamente formato, con molte donne ma non solo donne. Servono fondi per i centri di accoglienza, (la legge non prevede neanche un euro e non c’è nessun impegno neanche su fondi già precedentemente stanziati); servono politiche che allarghino gli spazi di autonomia delle donne e valorizzino il contributo che loro danno alla società. Alimentare positivamente la solidarietà sociale e simbolica tra donne e uomini.
In politica, per esempio. Serve altro insomma, che non sia il disegno di legge 1540, prima firma Letta. Da rimandare al mittente. La storia delle donne è da sempre una storia di violenza e sopraffazione, la violenza ha accompagnate le donne nelle diverse epoche, come dimensione sociale, giuridica, simbolica. Antropologica. Il capo famiglia esercitava lo Ius corrigendi nei confronti della moglie e dei figli ed erano botte da orbi. Le donne sono state sempre picchiate, malmenate, uccise. Divorzio all’italiana, cioè uccidere la moglie per liberarsene e andare con un’altra. Quasi legittimo, da assoluzione o pena irrisoria e non secoli fa. Oggi non è più così non solo sul piano della legge ma della percezione sociale, del valore delle cose. In molte parti del mondo. Da noi. Almeno in parte. C’è insomma un spostamento della prospettiva, e ci sono dispositivi giuridici e sociali e simbolici – certo non perfetti, spesso inapplicati o mal applicati – che tuttavia non offrono più appigli adeguati di auto-riconoscimento e legittimazione al maschio che vuole essere padrone di una donna.
E comincia a essere rotto il silenzio degli uomini. Non tutti violenti, ovviamente. Da sempre. Ma fino a ieri tutti in silenzio, perché ogni uomo violento parla d loro. Ma se parlano loro, le cose possono cambiare. Perché è una battaglia di civiltà che riguarda uomini e donne e solo insieme si possono operare cambiamenti. C’è da registrare insomma un mutamento dell’antropologia dei rapporti tra donne e uomini a cui le donne hanno dato impulso e che ha fatto fare un grande passo avanti alla civilizzazione delle relazioni tra i sessi. E questo è un bene straordinario per tutti, ed è su questo terreno che bisogna soprattutto lavorare, investire, dare rappresentazione alle cose. Sapendo che il peggior pericolo è rifugiarsi dietro lo schermo del vittimismo. La donna vittima. Dimenticando che il neologismo accolto dall’Accademia della Crusca – quell’urticante “femmincidio” oggi tanto in voga – è venuto al mondo non casualmente. Ma per un atto di libertà femminile. Che è la nostra forza. Di uomini e donne.