Ho ascoltato per due volte il leghista Matteo Salvini in tv. A campagna elettorale iniziata, l’eurodeputato mette tra i primi provvedimenti che consentirebbero un maggiore gettito fiscale i redditi provenienti dal sex working.
Non nascondo una certa sorpresa: il dibattito sui diritti legali e fiscali dei sexowrkers si fa sentire da anni in tutta Europa, partendo dalle buone pratiche di molti paesi, in Italia il discorso ha sempre riguardato nicchie ristrette della sinistra, spesso a margine della discussa legge sulla prostituzione, che nel nostro paese arriva a colpire “il beneficiario ultimo” cioè il cliente di prostitute e transessuali.
Come è successo dunque che sia la Lega per conto del suo capolista alla Camera fare suo un tema così “tradizionalmente di sinistra”? Non vi è dubbio che la succitata esperienza europea abbia destato gli interessi di Salvini, facendoglio fare un balzo prepotente in avanti e cancellando in un colpo il ricordo di un passato fatto di ronde contro chi esercita la prostituzione in strada, battendosi per le case chiuse. Ed è pur vero che l’iniziativa di tassare il sex working non può non essere collegata al riconoscimento del lavoro stesso, dei permessi di soggiorno legati alle e agli stranieri che lo esercitano in Italia, e così via.
La seconda e inevitabile domana è: perché il tema non è tra i primi punti della sinistra? Dove sono le voci di SEL, che dicono no a Monti ma forse devono mediare con la componente cattolica del Pd? Non lo so, non frequento nessuno dei due partiti ma conosco molte donne e uomini che ne fanno parte e che stimo. E mi inquieta sempre di più il fatto che spazi di libertà, dibattito democratico, relazioni tra sessi e esercizio della cittadinanza di tutti, vengano occupati da chi li ha sempre contrastati perché da tempo lasciati vacanti.