Storie / Corsivi

racconti di persone, polemiche ad personam

I funerali di Gallinari, e quelli del ’68

22 Gennaio 2013
di Letizia Paolozzi

Ancora sul funerale di Prospero Gallinari. Congedarsi da un amico senza essere direttamente implicati con la sua biografia non è facile. Proprio per questo, se si tiene a un amico, bisognerebbe uscire dal campo di battaglia dei simboli provando a ricordarlo altrimenti. Anche se riuscirci è difficile.

E comunque, era prevedibile che il funerale di Gallinari non sarebbe stato  soltanto un congedo tra amici. Avrebbe riaperto lo scenario sociale di un decennio, perlomeno di quelli e quelle che l’hanno attraversato. Diciamo dal Sessantotto ai gruppi extraparlamentari alle scelte individuali e collettive, anche (e soprattutto) rispetto alla violenza. Scelte spesso divergenti una dall’altra (la più importante porterà al movimento delle donne e al femminismo), compiute dai tanti e tante che eravamo in un tempo di grandi passioni politiche.

Stampa e televisione hanno commentato le presenze al funerale, i pugni chiusi, l’Internazionale intonata da Oreste Scalzone, come “squallida messinscena”. Claudio Grassi di Rifondazione Comunista ha dovuto spiegare che la sua partecipazione era motivata dall’amicizia, non dall’adesione alle opzioni che mai aveva condiviso. Il funerale è stato seguito da molti articoli ostili (qualcuno invece ha espresso la sua attenzione con rigurgiti di nostalgia come il pezzo di Mario Gamba sul “Manifesto”): tutti – mi sembra – dalla rimozione al rigetto alla giustificazione.

Questo non è un Paese che vuole ricordare, elaborare. Che ci fosse o no radicamento sociale della lotta armata in Italia e perché la lotta armata si incistò nella democrazia italiana non ha provato a spiegarlo quasi nessuno. O meglio, le spiegazioni più attente alla realtà di quel tempo non sono mai state fatte proprie dal discorso pubblico. E soprattutto non lo sono oggi, in un momento in cui invece sarebbe utile rileggere criticamente la nostra storia.

Quanto a chi era presente al funerale, la mia impressione è che, anche lì, fosse impossibile qualsiasi elaborazione. Come se l’esperienza del carcere (ma anche quella dell’esilio per quanti fuggirono all’estero) avesse messo un sigillo sulle illusioni, sulle delusioni. Una sorta di ibernazione.  Dopodiché, Gallinari, agli occhi di chi visse le sue illusioni e delusioni,  immagino rappresenti la “coerenza” dell’uomo che non ha mai cambiato idea e non si è pentito e non ha denunciato. Che non si è sottratto alla propria storia. E non l’ha rinnegata.

Significa che la violenza è un lago di pece nera dal quale è impossibile staccarsi? Eppure, non esiste ragione al mondo (“il tradimento della Resistenza”, la mitizzazione della classe operaia, lo scontro con i poteri coercitivi dello Stato) che possa giustificare la decisione di togliere la vita a qualcuno. Mentre, sul piano pratico, c’è il piccolo particolare che il nostro Paese negli anni Settanta non aveva nulla che lo avvicinasse ai movimenti armati di (molte) altre parti del mondo.

In effetti, il funerale del 68, della rivolta studentesca e della classe operaia, si fece in quegli anni. Adesso le forze dell’ordine, una volta detestate in quanto espressione dello Stato, hanno scortato il feretro di Gallinari.

 

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