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relazioni politiche, dal quartiere al mondo

Obama mi commuove, Bersani mi consola (almeno un po’…)

14 Novembre 2012
di Alberto Leiss

Quando ho letto il testo integrale del discorso della vittoria di Obama in certi passaggi mi sono commosso. Per esempio quando ha parlato dei lavoratori americani che si autoriducono lo stipendio per salvare i compagni dal licenziamento. O quando – dopo aver dichiarato il suo amore per la moglie e le figlie, e il suo debito verso Michelle – si è rivolto a tutti, non importa se “neri o bianchi, Ispanici o Asiatici, o discendenti da americani, giovani o vecchi, ricchi o poveri, abili o disabili, gay o etero” dicendo più o meno: qui in America se ci provate ce la potete fare.

Lo so che è retorica.  Ma è una buona retorica, almeno ai miei occhi. Lo so che la democrazia americana e dominata dal denaro e Wall Street, che votano in pochi, che il primo presidente nero e democratico ha promesso finora molto più di quanto ha mantenuto.  Tuttavia la sua vittoria – prima di tutto culturalmente, simbolicamente – lascia aperta una alternativa nel mondo alla supina accettazione delle cose come stanno. E’ qualcosa di vero che si legge nelle sue parole, nel suo corpo, nella sua storia personale. Nelle immagini vive nel nostro ricordo del “sogno” di Martin Luther King: chi può negare che molto è cambiato da allora?

Sull’ultimo numero di Alfabeta2  Rebecca Solnit  (“La pazienza di Occupy”) invita a non sottovalutare il mutamento che può essere ottenuto, nel tempo, grazie ai movimenti come quelli che lungo un anno hanno contestato il potere della finanza speculativa.  Non tutto, e forse non le cose più importanti, può essere ottenuto dai livelli istituzionali e dalle stanze del potere governativo. Un po’ di “ottimismo della volontà” di rivoluzionaria memoria, una boccata d’aria fresca rispetto al cupo e depresso pessimismo che invece sembra aleggiare dalle parti della sinistra nostrana, più o meno radicale e alternativa.

Certi amici di questa variegata area giudicano l’alleanza tra Bersani e Vendola, e il tentativo di solidificare con le primarie una proposta politica e elettorale di centrosinistra,  una specie di complotto al servizio del capitale. Anche qui, non mi sfugge una storia di subalternità culturale al pensiero dominante neoliberista che ha afflitto la sinistra, non solo italiana, dall’89 in poi. Tuttavia invecchiando mi riduco sempre più a considerazione di tipo catalanesco (dal simpatico filosofo dell’ovvio Catalano, che ci faceva ridere nella tv di Arbore).

E guardando l’altra sera i “magnifici5”nello studio di X factor, in un dibattito politico tutto sommato civile (forse sarebbe stato meno noioso se a interrogarli fossero rimasti anche Morgan, Elio delle Storie Tese, Arisa e Simona Ventura?) mi sono detto: be’, meglio questi di Berlusconi e Bossi (e dei loro eredi), di Grillo, e persino di Monti. Certo non siamo ancora alla retorica commovente di un Obama. E per quanto anch’io ammiri uomini come il cardinal Martini e Papa Giovanni, da rappresentanti della sinistra mi sarei aspettato qualche suggestione culturale un po’ più laica.

Qui meglio Renzi, che ha pensato a una blogger tunisina. Questo dimostra che il problema della sinistra resta quello di costruirsi una nuova autonoma cultura del cambiamento. Ecco il compito radicale in cui impegnarsi, per chi lo desidera. Non credo che per svolgerlo sia così importante inventarsi altre liste elettorali.

 

 

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