Pietà, il Leone d’oro 2012 della Mostra del Cinema di Venezia, è la chiara dimostrazione della sconfitta della violenza. Perchè alla fine muoiono tutti i suoi protagonisti principali: il giovane aguzzino che riscuote i debiti dell’usuraio, la madre vendicativa del figlio suicida reso inabile dall’aguzzino, forse l’usuraio stesso, e gli altri che rimangono sono storpi a carico delle loro madri o donne destinati inseme a una morte di stenti. E’ un film senza padri, solo un giovane uomo è in procinto di diventarlo.
Qualcuno della giuria su Repubblica ha giustificato il premio dicendo che il film rappresenta un linguaggio comprensibile a tutti (uomini e donne).
Pare che i linguaggi artistici, dal secolo scorso in poi, debbano stupire per potersi far vedere. Fare male. L’arte non riesce a trovare un’altra strada per esprimersi su questo mondo. Il Leone d’oro non mi pare estraneo al meccanismo. Accade in varie altre forme artistiche: pittura, scultura, performance… Sembriamo tutte e tutti analfabeti del mondo e se non c’è un qualche artista che ci possa stupire con la sua violenza noi non capiamo.
Pietà è il film di un uomo, premiato da una giuria di uomini e donne tra cui Laetitia Casta e Marina Abramovic grande amante delle lame da coltello. E’ un film maschile che si insinua come neutro nel nostro immaginario per non lasciarci altra immagine oltre la violenza.
Sempre lì dobbiamo ricadere per parlare di quello che ci circonda. Non riusciamo a trovare altre prospettive che la distruzione, dopo due guerre mondiali e la scoperta del nostro inconscio? Pare vi sia un compiacimento acuto del macro e micro cosmo umano della e nella violenza. Una povertà immaginifica che si giustifica nella presunzione universale del suo neutro. Che neutro non è. Non a caso il regista coreano che ci vuole convincere, più con le immagini che con le parole che arrivano sempre dopo, è maschio e frulla tutto insieme: potenza della violenza maschile e potenza della cura femminile, l’amore contenuto nella cura usato come vendetta al femminile, e un maschile che senza la violenza non sa trovare altro senso in sè al suo stare nel mondo.
Ben più raffinate della morte come unica soluzione alla morte che propone Kim Ki-Duk sono le riflessioni sulla violenza oggi in Alfabeta2 (luglio-agosto) di Paolozzi, Chiaromonte, Leiss e Muraro. Nella rivista Luisa Muraro discutendo di violenza, parla di “indipendenza simbolica dall’ordine (o dal disordine) esistente come fondamentale per uomini e donne”.
Indipendenza simbolica dall’esistente mi sembra un suggerimento prezioso per la costruzione di un orizzonte anche personale che andrebbe tenuto continuamente presente. Credo possa aiutare a non correre il rischio di abituarsi alla dipendenza da quello che c’è e alla rinuncia della critica. Che in qualche maniera è quello che accade al personaggio dell’aguzzino, che passa da una dipendenza (usuraio) all’altra (falsa madre) senza rendersi conto di quando come dove poter diventare indipendente come individuo. Trovo che l’indipendenza simbolica di Muraro sia una leva che ci può aiutare a tendere ad una libertà individuale, nel bene e nel male, differente da quella che conosciamo, penso alla passività e all’azione con cui i due sessi si muovono dentro la questione della violenza.
Kim Ki-Duc intuisce che nella cura c’è un potere tasformativo, ma lo usa come sostituto femminile della forza fisica maschile, rendendolo, nell’ economia del suo pensiero, distruttivo comunque. In perfetta sintonia con quello che dice sul Venerdì di Repubblica del 24 agosto “…le donne vogliono eliminare tutti gli uomini. Per salvarsi”.
Sarà perchè Luisa Muraro è una donna che irrompe l’indipendenza simbolica nel discorso sulla violenza, mentre Kim Ku-Duk si fa bastare la dipendenza dalla violenza esistente, e del suo sapore maschile non si accorge neanche? Non a caso l’intuizione di Muraro è del tutto assente in Pietà, dove si rappresenta invece il suo esatto contrario: la dipendenza artistica e umana dalla violenza come la conosciamo da sempre.
E nel darmi il diritto di parlare della violenza in Pietà, non voglio addentrarmi più di tanto nel racconto della trama, come solitamente si fa per autorizzarsi a farlo. Mi basta l’ abbuffata di violenza a cui costringe, che ti insegue a lungo dopo l’uscita dal cinema. Temo che la trama sia stata costruita in modo così ridondante per autorizzarsi ad esibire tutto il ventaglio di violenza possibile, intrigandolo psicologicamente con un finto rapporto incestuoso. Anche se lo stupro che c’è è proprio vero.
Emerge dal profondo del film un maschile irrisolto nel suo rapporto con la madre e la donna, e una confusione compiacente e dolciastra tra vita e morte che sembra quasi ovvia nel macabro debordante con cui si chiude il film, prima del suicidio finale. Le due o tre gentilezze che incontriamo, si ammantano di quasi ironica poesia, perchè finalmente ti lasciano un attimo di pausa per respirare dalla costanza dell’orrore.
C’è un vuoto immenso nascosto sotto l’ombrello della violenza in cui nascondersi senza il pericolo di trovarsi che può proteggere registi, festival, giurie, arte… Confondendosi e confondendoci. Una miseria acefala questa della violenza a cui le arti si piegano accudenti senza altri desideri. Le Arti, nell’era della comunicazone globale, sembrano non sapere più vivere di vita propria e della propria autorevole autonomia. Fotografano uno status quo e si bastano.
E’ questo il loro ruolo? Rappresentare la deriva e basta? Mi pare toppo banale e troppo accondiscendente e che non serva più di tanto alle e agli spettatori, ma allo spettacolo sì.
Abbiamo bisogno d’altro. Di altre ali e di altri sforzi per non rimanere impantanati dentro a questo torbido che ci impedisce nuovi orizzonti e nuovi sguardi, a partire dal non fare confusione tra visioni femminili e maschili del mondo.
Ad esempio fare chiarezza tra forza e violenza, tra deleghe prese e non date, tra rinunce e aggressioni, tra debolezza e forza, tra amore e violenza, tra morte e vita, tra arte che si piega e arte che cerca oltre la banalità vojeuristica del male.