Giovani di ieri e giovani di oggi. Tema tra i pricipali della Mostra del Cinema di Venezia di quest’anno, variamente declinato. Come sempre la gioventù è inafferrabile e incomprensibile per definizione, sia quando cerchiamo di ricordare come eravamo giovani di ieri – e attraverso quel momento speciale e specifico le donne e gli uomini che siamo diventati -, sia quando cerchiamo di capire esistenze e relazioni di quelli che sono venuti dopo, che vivano con noi oppure no.
I giovani di ieri sono quelli che avevamo lasciato nel ’68 (e cinematograficamente parlando qualche anno fa) in The Dreamers di Bernardo Bertolucci, esordio del maggio parigino e della vita di tre giovani e ricchi bourgeois alla ricerca delle loro nuove identità. Il film si concludeva con una frase emblematica: i tre, dopo una notte trascorsa nello stesso letto, si risvegliano con i rumori della manifestazione in corso nella strada. Il mondo è entrato in casa, osserva serio uno di loro, dando inizio al fenomeno poroso del pubblico-privato-pubblico che molto ha caratterizzato pensieri e azioni di quegli anni e segnato gli anni del femminismo.
Il bel film Après mai. Something in the air (Dopo maggio, qualcosa nell’aria) di Olivier Assayas, ricomincia poco dopo nel tempo: è il 1971 e siamo vicino Parigi, stessi giovani alla ricerca di nuovi mondi, più consapevoli e politicizzati di quelli che avevano appena iniziato la rivoluzione in The Dreamers, organizzati in piccole bande, coprono di vernice la loro scuola, stampano volantini propagandistici, cercano teneramente di pubblicizzare film sui combattenti del Laos indipendente che avrebbero fatto dormire anche un elefante. A Parigi intanto la polizia li carica pesantemente nel corso dei cortei e alcuni di loro decidono di cambiare aria per un po’: chi in Italia a cercare connessione con gli operai delle fabbriche, chi a promuovere nelle piazze calabre documentari alternativi, chi ammirato e aspirante artista a dipingere Roma, Firenze e Pompei. I nostri hanno capelli lunghi abiti con il pizzo stile anziana nonna, fumano e si drogano, leggono la controcultura al maoismo, discutono mentre fanno l’amore all’aperto e qualcuno sperimenta acidi e eroina. Senza enfasi e senza troppa nostalgia li riprende Assayas: si stava sempre insieme, si viveva (chi poteva farlo) nelle ville dei genitori ricchi, si prendeva la via dell’India e del Pakistan per scoprire Boetti e gli artisti delle avanguardie. Destini diversi per ognuno dei protagonisti (chi torna a casa a finire gli studi, chi sbarca sul set, chi sceglie la morte), un tratto comune per le ragazze: mi si è stretto il cuore quando ho visto una protagonista che, con l’eterna sigaretta alle labbra, fa andare il ciclostile in una cantina piena di maschi che litigano sul trotzskismo, e viene interrogata dall’amante- covivente che vuole cambiare il mondo mentre lei – che vuole la stessa cosa – fa anche la spesa e lava i piatti: stasera esci? Chiede lui. Sì vado dalle mie amiche: Quelle lesbiche? Risposta: non sono lesbiche sono femministe.
Vivaddio abbiamo consumato suole ma un di strada ne abbiamo fatta. Come quella che nel film percorre la bella rossa figlia di un diplomatico statunitese che vuole diventare una danzatrice sacra ma nel frattempo rimane incinta e sceglie di andare da sola ad abortire in Olanda. Il suo lui le consiglia di non perdersi i ritratti di Frans Hals al museo, lei promette mentre afferma: dicono che l’aborto sia doloroso, ma lo dicono solo per spaventarci, coraggiosa e determinata nel suo diventare donna.
Quaranta anni e passa dopo i giovani della generazione 2.0 si incontrano nella Rete, chattano, si danno dei soprannomi (pardon, nickname) e si inventano personalità e identità per nascondersi o apparire migliori. In verità lo fanno anche gli adulti in Disconnect di Henry-Alex Rubin (fuori concorso). Giovani e adulti ripresi mentre vivono immersi negli schermi di tablet e cellulari, sembrano incapaci di dialogare senza uno strumento tra le mani. Ma Internet non è solo un mostro, come è ovvio, riflette quello che siamo con qualche strumento in più: la solitudine di una coppia che ha perso il loro bambino e non comunica più (lei chatta con un vedovo in un gruppo di supporto), mentre qualcuno clona le loro carte di credito e li getta sul lastrico. I due asolescenti che si fingono una ragazza innamorata di un compagno di scuola che a loro pare strambo e poco socievole e spingono lo scherzo fino al dramma finale. C’è la giornalista che cerca il successo in tv tentando in buona fede di approfondire una relazione con un giovane della porno-chat e combina disastri colossali. Insomma, nel film il mondo della comunicazione in Rete sembra evidenziare fragilità e incapacità relazionali di più generazioni, moltiplicando gli intrecci (perché entrano in gioco anche quelli virtuali) e lasciando poco spazio a quella che a volte può essere una proficua solitudine. Non ci sono le ideologie, non c’è la società, Rubin ritrae i suoi attori ( e di conseguenza noi) in quotidianità dove il mondo che è fuori non entra più in casa come per i sognatori di Bertolucci e Assayas – case dove già c’è molto disordine – se non per gettare altra benzina sul fuoco.
Sappiamo bene che la Rete non è solo questo, ripeto, ma non possiamo evitare a un filo di angoscia di prenderci le gambe sulla poltroncina della sala cinematografica
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