“La rivoluzione femminile che abbiamo conosciuto dalla seconda metà del secolo scorso ha cambiato radicalmente il mondo. (…) La violenza fisica contro le donne può essere interpretata in termini di continuità, osservando il permanere di un’antica attitudine maschile che forse per la prima volta viene sottoposta a una critica sociale così alta, ma anche in termini di novità, come una “risposta” nel quotidiano alle mutate relazioni tra i sessi.(…) Forse il tramonto delle vecchie relazioni tra i sessi basate su una indiscussa supremazia maschile provoca una crisi e uno spaesamento negli uomini che richiedono una nuova capacità di riflessione, di autocoscienza, una ricerca approfondita sulle dinamiche della propria sessualità e sulla natura delle relazioni con le donne e con gli altri uomini. (…) Resta il fatto che esiste ormai un’opinione pubblica e un senso comune, che non tollera più queste manifestazioni estreme della sessualità e della prevaricazione maschile…”
Queste affermazioni erano contenuto nel testo intitolato “La violenza contro le donne ci riguarda: prendiamo la parola come uomini”, diffuso nell’ottobre del 2006 e subito condiviso da parecchie centinaia di uomini, tra i quali esponenti del mondo politico e culturale, dei media e dello spettacolo (1). Era la prima volta – almeno in Italia: una simile iniziativa era già stata presa da poco tempo in Spagna e ancora prima in altri paesi del mondo anglosassone – che una voce maschile “collettiva” si levava riconoscendo una di quelle verità così evidenti da restare a lungo nascoste: sono sempre state le donne a subire queste violenze e le donne a occuparsi direttamente delle vittime, lottando per ottenere qualche sostegno (ma non troppo intrusivo) da parte delle istituzioni. Ma la causa del problema, cioè i comportamenti maschili – nella stragrande maggioranza dei casi agiti tra le mura domestiche – restava sullo sfondo, opaca, rimossa. Non vista e non detta soprattutto dagli stessi maschi.
Dopo la pubblicazione di quel testo ci fu un incontro a Roma, in un piccolo teatro, un primo incontro sul tema tra donne – donne del femminismo – e uomini. Si apriva anche un dialogo tra l’impegno femminile nei centri antiviolenza e uomini disposti a non voltare la testa dall’altra parte. Un anno dopo nasceva l’associazione “Maschileplurale”, un nome già usato da alcuni gruppi informali di uomini da diversi anni impegnati nella ricerca di una diversa identità maschile, più consapevole della propria parzialità, critica verso le ipoteche patriarcali. La diffusione del testo sulla violenza aveva funzionato da catalizzatore: singoli e altri gruppi sparsi in varie città italiane avevano riconosciuto una sensibilità comune, una voglia di scambio e di iniziativa pubblica. Nel 2009, in occasione del 25 novembre, giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, “Maschileplurale” organizzò anche una manifestazione in piazza Farnese a Roma (2).
Ricordo queste cose, alle quali con tanti altri ho preso parte, non per rivendicare un qualche “merito” – considero errata e rischiosa qualsiasi posizione “edificante”: maschi buoni contro maschi cattivi – ma solo per descrivere la crescita di esperienze, riflessioni, azioni da parte di uomini sulla violenza maschile che oggi – nel momento in cui riemerge la denuncia dei “femminicidi” – dovrebbero servire a non considerare sufficiente il rito, tutto sommato facile, della sottoscrizione di ulteriori, per quanto sempre utili, appelli “contro”.
C’è ormai un terreno ricco, anche se complesso e difficile, sul quale provare a esercitare un fare e un pensare da parte maschile. Per esempio stanno crescendo – anche mutuando pratiche e esperienze già da tempo avviate nel mondo anglosassone – le iniziative rivolte alla prevenzione della violenza maschile, offrendo occasioni di autoriflessione agli uomini che si accorgono di cedere agli istinti aggressivi e cercano di “fermarsi in tempo”. Così come percorsi “riabilitativi” per chi già sconta una pena o provvedimenti giudiziari restrittivi per aver commesso violenze e molestie (“stalking”), entro certi limiti di gravità. Alcuni uomini sono coinvolti in queste sperimentazioni non in quanto portatori di una competenza “tecnica” – per esempio nel campo psicologico – ma in quanto maschi impegnati in una autoriflessione e disponibili a uno scambio in condizioni più o meno “paritarie” con gli uomini definiti “maltrattanti”.
Ci sono, naturalmente, molti interrogativi. A cominciare da quelli relativi a un doppio rischio: mentre – nel clima generale di riduzione del welfare – si vedono tagliare i già magri fondi pubblici i centri antiviolenza che si occupano delle donne vittime, ci può essere uno spostamento di attenzione istituzionale verso la condizione di chi la violenza la agisce. Certo anche l’uomo violento spesso vive un dramma ed è in un certo senso “vittima” di se stesso, e se si vuole di un contesto culturale e simbolico che lo condiziona. Ma è evidente l’esigenza di un equilibrio insieme rigoroso e sensibilissimo nell’affrontare i due lati di questo dramma sociale. Ne ha scritto con competenza Marisa Guarneri, fondatrice della Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano (sul n.100 di Via Dogana: http://www.libreriadelledonne.it/news/abstract%20via%20dogana/VD100_guarneri.htm)
In secondo luogo un processo di istituzionalizzazione del problema rischia di confinare la violenza maschile contro le donne nella pura sfera criminale o patologica. Un processo del resto speculare a un certo movimento dell’opinione pubblica maschile: ormai il fenomeno è evidente, esecrabile e esecrato, ma il “maschio consapevole” di turno può sempre dire “certo condanno l’orribile bestialità dei miei simili, ma io che non sono violento che c’entro?”.
La tesi che voglio qui anche provocatoriamente affermare è invece quella di una “continuità” tra la violenza sessuale che si consuma quotidianamente nel “privato” e la violenza politica e simbolica che sostanzia un potere maschile peraltro investito in forme sempre più dirompenti da una crisi di autorità che assomiglia a un vero e proprio collasso (basta guardare a che cosa sta succedendo nelle sfere dell’economia, della politica, della chiesa, e persino del gioco del calcio).
Sandro Bellassai ha raccontato l’”invenzione della virilità”, nell’Italia di fine ‘800, della Grande Guerra e del fascismo, del consumismo nel “boom” degli anni ’50 e ‘60, fino alla parabola di Berlusconi. (3) Una reazione aggressiva di elites culturali e politiche maschili, attraversate dalla paura che modernizzazione significasse femminilizzazione della società e fine del potere patriarcale. Una paura storicamente fondata, che in assenza di adeguata elaborazione ha accompagnato diverse catastrofi belliche e politiche sino alla situazione presente. E che sulla recente scena italiana abbia dominato spettacolarmente la vicenda declinante di un uomo di destra non deve distrarci dal fatto che anche a sinistra la rimozione e la falsa coscienza sulle relazioni tra i sessi sono radicate e diffuse (senza insistere sui casi eclatanti, per quanto molto diversi, Strauss-Kahn e Marrazzo).
Il virilismo sembra però un morto non ancora sepolto, di cui non è stato elaborato il lutto. Continua a emanare scosse negative che si propagano sotto forma di un “rancore” maschile (4) che assume anche la forma di costruzioni culturali e ideologiche – penso alle polemiche in Francia sul ruolo del giornalista Eric Zemmour, critico politicamente assai scorretto della “femminilizzazione” sociale (difendo il suo diritto a parlare, ma bisogna sapergli rispondere).
Luisa Muraro ha parlato della fine di un “contratto sociale”, basato anche sul monopolio statale della violenza, che è sempre stato anche un “contratto sessuale” segnato invece dalla costante violenza maschile sulle donne. (5)
Credo che gli uomini – tutti, e specialmente quelli che “giocano” nei luoghi della politica, della cultura, dell’informazione e della formazione – non possano fare a meno di esprimersi su questo “continuum” tra violenza sessuale e violenza politica, tra potere, potenza e impotenza. Interrogandosi sui meccanismi inceppati di produzione di autorità – nel senso di autorevolezza – di cui sono per lo più oggi prigionieri, e responsabili del rischio che la crisi degeneri in nuove esplosioni violente.
Abbiamo alle spalle secoli di “esercizi spirituali”, filosofici, religiosi – e politici – per regolare queste nostre dinamiche comportamentali complesse e rischiose, con una faticosa “cura di sé”. Forse è venuto il momento di tentare, da parte di noi uomini, la pratica di “esercizi di spostamento simbolico”. Un esempio? Mi è venuta in mente l’idea di un seminario permanente sulle biografie (i vissuti oltre alle idee) di alcune figure maschili molto determinanti nella cultura contemporanea: Martin Heidegger, il geniale innovatore della filosofia che tradì il suo maestro e aderì al nazismo, Louis Althusser, il grande critico marxista e comunista che un giorno si accorse di avere strangolato la moglie, Paul Celan, il sommo poeta dell’Europa sopravvissuta all’Olocausto, che la moglie cercò di accoltellarla, e poi si uccise gettandosi nella Senna. Non sarebbe difficile allungare l’elenco. Un esercizio forse utile per capire meglio che la cura di sé non porta a buoni risultati se non è anche cura degli altri, delle altre. E senza rimuovere il riconoscimento e l’elaborazione dei conflitti che questo spostamento simbolico esige.
1) – Il testo dell’appello e i primi elenchi di firme sui siti www.maschileplurale.it e www.donnealtri.it
2) – Contenuti e materiali relativi a quella iniziativa nel video “Da uomo a uomo”, a cura di Michele Citoni per Maschileplurale.
3) – Sandro Bellassai – L’invenzione della virilità. Politica e immaginario maschile nell’Italia contemporanea – Carocci editore 2011
4)- Vedi il saggio di Stefano Ciccone “Il rancore degli uomini”, in “Silenzi. Non detti, reticenze e assenze di (tra) donne e uomini”. Ediesse 2012.
5) – Luisa Muraro – Dio è violent – Nottetempo 2012.