Paestum 2012, appuntamento il primo week end di ottobre: l’invito nasce da una suggestione che è quella che è – quasi quarant’anni fa, in quel magico metafisico luogo campano, andò in scena un’idea radicale e conflittuale delle relazioni tra i sessi che fece girare pagina a molte cose, segnando profondamente la storia del nostro Paese; e nasce da un desiderio che la lettera invito suggerisce, lasciandone tuttavia in ombra la valenza e il significato.
“Davanti alla sfida della libertà femminile – segnala la lettera delle trentacinque firmatarie – la politica ufficiale e quella dei movimenti rispondono cercando di fare posto alle donne, un po’ di posto alle loro condizioni che sono sempre meno libere e meno significative.” E’ un tema vecchio di un paio di decenni almeno, per non dire ormai storico, che ritorna insistente ma sembra scalfire sempre meno. Tema fin troppo veritiero, ovviamente, che nasconde però un non detto e ha a che fare col rapporto tra libertà femminile e politica.
Di che sfida parliamo? Se lanci la palla e poi la lasci andare via nel mondo essa diventa cosa tra le cose, fa parte del contesto, certo lo modifica ma non è detto che modifichi tutto allo stesso modo e linearmente nel tempo e secondo una scala di valori costruita a tavolino. Politica, partiti, rappresentanza, per esempio. In Italia, poi! Il problema è davvero e soprattutto un altro. Le donne che politica vogliono fare? In che modo vogliono ridisegnare la mappa della politica? Vogliono davvero questo: sfondare muri, guidare le cose, smetterla di stare al gioco dell’altro? E prendersi cura del mondo macro oltre che di quello micro ? E farlo sapendo che costruire pratiche di azione condivisa a largo raggio non sembra ancora una acquisizione delle donne.
Paestum potrà essere, alla fine, solo un raduno nostalgico, un luogo della memoria che riconfermi, per quelle che vogliono, ciò che è stato: come un’identità remota che dura. Le dee misericordiose ci scampino però da un tale esito.
Potrà essere anche l’atto di rivendicazione di un cambiamento che ha davvero cambiato il mondo – e come lo ha cambiato! Ma oggi quel cambiamento sembra senza traccia e si sente la voglia di richiamarlo in scena. Ma così Paestum 2012 rischia di essere soltanto un’invocazione rivolta al fantasma dell’Opera.
Oppure potrà davvero rappresentare un’occasione di incontro, scambio, dialogo e confronto tra percorsi, saperi, esperienze, risorse antiche e nuove; una molteplice rimessa in gioco di idee che posseggono la forza di spostare il punto di vista e la pratica delle cose. Posseggono però tale forza soprattutto – o forse solo – se messe insieme davvero con idee e pratiche che vengono vissute e sperimentate in questa caotica contemporaneità. E sono idee e pratiche – quelle della contemporaneità – che comunque stanno già operando spostamenti per conto loro.
Le ragazze di oggi, per esempio, che passano attraverso il vento e salgono sui tetti: che cosa muove le loro vite e il loro stare al mondo, il loro rivendicare spazi o, più sapientemente, quando non raramente questo avviene, quel loro costruirli, gli spazi, e costruire progetti, prese di parole, forum e agorà? La precarietà della loro vita no future quali inediti spazi di contiguità, di condivisione esistenziale e di ordine simbolico produce nei rapporti con l’altro sesso? E tra loro? E nelle domande di fondo?
Aprire insomma nuove piste di ricerca, connettere le ragioni di nuovi e vecchi conflitti per decifrare l’indecifrabile buco nero della violenza – femminicidi senza fine – che sul corpo sessuato delle donne continua a esercitarsi irrefrenabile, senza avere più al seguito le spiegazioni storico-sociali di altre stagioni della storia umana, ma, proprio per questo, sollevando nuovi inquietanti interrogativi e, insieme, reiterando il suo carattere, antropologicamente emblematico, di proiezione e messa in opera del cuore di tenebra del potere maschile.
Di che parla la crisi che viviamo? Essa evidenzia l’inquietante dinamica del consumarsi di un’intera epoca storica, dei suoi modelli, delle sue regole, delle sue aspirazioni, speranze, utopie. Fortemente maschili, per lo più. E delle responsabilità di un potere economico sociale politico in mani maschili, che sembra aver rotto definitivamente con la quotidianità del vivere e non saper riconnettere la condizioni essenziali che rendono possibile il riprodursi della vita. Un meccanismo letale, sempre più lontano anche dalle condizioni di sopravvivenza di tutto, pianeta compreso, a cui tutti son chiamati ad assuefarsi, diventando pentiti e penitenti, in nome di nuove divinità del mercato dal nome ringhioso, che impongono lacrime e sangue e il sacrificio del responsabile. Cioè lo Stato sociale, mica uno scherzo.
“A noi economisti non è consentito occuparci dei bisogni umani”, dicono gli economisti con fanciullesco candore. Se ne occupano infatti le donne, da sempre e oggi ancora, per quello che il mercato sempre meno consente e a cui sempre più obbliga. “Noi abbiamo altre priorità”, ripetono. Chi se non uomini possono parlare così? Ma anche delle donne, ovviamente, sono capaci di parlare così: il lato oscuro della complicità femminile al potere maschile, che c’è sempre stata ma proprio quel radicale cambiamento delle cose del mondo – che Paestum 2012 vuole richiamare – ha reso evidente, diretta, senza scappatoie . Dunque non più giustificabile. Ma problema poco all’ordine del giorno.
La crisi che viviamo, che è profonda in tutti i sensi e le direzioni e in cui la fine del patriarcato e la crisi del maschile giocano un ruolo essenziale, offre forse il migliore contesto perché una sfida femminile trovi strada per concorrere davvero a segnalare, segnare la strada. Il problema della politica si radica qui o non ha senso richiamarsi ad esso. Far parlare vecchi e nuovi femminismi e anche solo vecchie e nuove esperienze femminili, per ridare senso a parole di cui sappiamo bene il valore, di cui c’è certamente ancora necessità ma che non si capisce più che cosa significhino: inflazionate e dunque depotenziate, cariche di tutto e di niente, stiracchiate da una parte e dall’altra.
Libertà, per esempio, libertà femminile, in particolare, che continua a essere una bandiera issata dovunque, invocata e temuta, regalata come un bacio Perugina o sottoposta a analisi del sangue. Ed è invece soprattutto un concetto, un’idea, un rapporto con te stessa e col mondo. E soprattutto ancora una dimensione impervia e scandalosa, che non si presta a nessuna formula comportamentale se non ai passi che ognuna è in grado di compiere. O vuole compiere. Consapevolmente, ma anche no, perché il cambiamento è consistito anche in questo, nella trasformazione dell’ordine e del senso delle cose.
Libertà allora come scalare faticosamente una vetta o vivere al meglio che si può la propria vita o mettersi impudicamente in scena. Un paio di scarpe di Manolo Blanik sicuramente non ti fanno libera se già non lo sei. Ma neanche ti privano della tua libertà, se ce l’hai, in qualche misura e forma. Anche lontana e diversa dalla mia. La libertà ha a che fare per lo più con i passi compiuti, quelli che si possono compiere. O si vogliono compiere. O anche no. E’ il richiamo dell’anima, ovviamente, ma anche dell’epoca che si vive. Delle sue illusioni e dei suoi sogni, dei passi – anche quelli sghembi – che le donne fanno per stare al mondo e cambiarlo, almeno un po’.