La famiglia, le amiche e gli amici di Laura Gallucci la saluteranno domani mattina, martedì 17 luglio, alle ore 9, presso l’istituto Gianelli in via della Mirandola 15 a Roma.
Pubblichiamo un ricordo di Laura di Gabriella Bonacchi e una lettera che Laura scrisse alle amiche del gruppo “Balena” nel settembre del 2004.
La paura, l’azzardo, gli uomini.
di Gabriella Bonacchi
Come tutte noi Laura era piena di paure: i topi, la miseria, la fragilità fisica di chi è stato, in gioventù, parecchio intemperante. E lo sa. E’ presto per stilare un elenco, sia pur provvisorio, delle mille cose che Laura ha condiviso con le donne della sua generazione. Ma non solo. Nessuna delle sue e delle mie amiche aveva – ad esempio – il rapporto, leale, franco e rispettoso con gli uomini che Laura aveva con i suoi artigiani. Tutti uomini di cantiere naturalmente, come con vezzo gentile li aveva – lei – abituati a definirsi. Uomini in calzoni macchiati di calce e con le braccia e mani muscolose, così diverse dalle sue: piccole e morbide. Così come piccoli e morbidi erano i suoi piedi, costantemente nascosti (anche d’estate) da pesanti calzari. Sempre per via dei cantieri, la sua vita e la sua maledizione. Ma anche, come i suoi calzari, il suo nascondimento. Laura portava pesanti calzari anche perché si vergognava dei suoi piccoli e paffuti piedini, che non corrispondevano alla sua severa idea di stile. Sul quale hanno scritto, in modo esauriente e bello, alcune amiche sul manifesto. Ma Laura si vergognava – un po’, in un modo non ancora del tutto indagato – anche dei suoi tempi vuoti dal cantiere. Questi tempi vuoti erano il lato grigio di Laura (e non parlo delle sue famose scelte cromatiche) che me la facevano amare sopra ogni altra cosa. Io l’amavo proprie per le sue paure, costantemente superate, con fatica e abnegazione, nell’azzardo della sua vita quotidiana. E – ora – della sua morte.
Lettera di Laura per Balena del settembre 2004
Spesso c’è una frase ricorrente nella nostra vita, La mia è “portami via da questo cimicioso corpo di ballo” tratta dal film <<Pallottole su Broadway>> di Allen; la ripete continuamente la ballerina amante del boss che vuole diventare attrice. Per me è la domanda che ho rivolto al femminismo negli anni 70 e quella che rivolgo a voi.
Sono approdata nel 72 al collettivo femminista comunista di via Pomponazzi mossa da un’inquietudine e uno scontento che il movimento del 68 non mi aveva tolto , la pratica del piccolo gruppo è stata per me fondamentale soprattutto nella scoperta che quelli che allora mi apparivano come limiti e deficienze mie diventavano punti di forza nel momento della condivisione e elaborazione collettiva. Il mio lavoro mi ha spostato a Viterbo dove ho fondato il collettivo locale pur continuando a frequentare il gruppo romano nei week-end. Il circolo Virginia Woolf è stato poi il mio approdo tornata a Roma. Ho cercato nei miei corsi di coniugare e tradurre le mie conoscenze professionali in sapere femminista, fino a progettare e realizzare il corso di falegnameria per donne. Questa iniziativa condotta con Michi Staderini procurò le sue dimissioni dal circolo e il mio conseguente allontanamento. Per questo gli anni della differenza mi hanno vista appartata, soprattutto per una certa diffidenza nei confronti di chi aveva prodotto la rottura con Michi e non ho più frequentato il circolo fino al 93, quando vi sono tornata. La teoria della differenza è stata per me illuminante, ma avevo saltato molti passaggi della pratica, per cui mi sono sempre sentita vicina, ma non completamente consonante.
Balena : è nata per me dal desiderio di condivisione di un’emergenza e un ‘urgenza che i mille tragici pensieri sulla guerra avevano determinato, ma anche da un desiderio di continuare a pensare in un’ ottica femminista il mondo e la mia vita. Volevo esser portata via dal cimicioso corpo di ballo.
Balena è nata dall’esigenza di condividere l’angoscia e lo sgomento di trovarsi in un mondo in cui non era più possibile riconoscersi neanche parzialmente, soprattutto in una società governata in quel momento dalla sinistra.
Ho deciso questa condivisione eleggendo un gruppo di donne perché : 1) ho attribuito al trionfo di valori maschili quali la forza e la violenza una delle cause della guerra ; 2) perché solo partendo da sé, pratica condivisa con le donne, si poteva ricominciare a ragionare; 3) perché sentivo che nella complessa situazione politica c’erano lati oscuri, assenze, reticenze, complicità che nascevano dallo stesso lessico e mondo femminile.
Ora da un anno la crisi che ci ha portato ad un ripiegamento e a un forte senso di disagio. Gran parte di questo determinato da un senso di impotenza rispetto alle nuove guerre e ai nuovi continui massacri terroristici.
Non si tratta di fermare la guerra, magari, si tratta di contrastare l’abitudine alla guerra che la fa sembrare inevitabile, si tratta di opporsi alla normalizzazione per cui ormai questo evento è nei nostri orizzonti e appartiene alla quotidianità. ,Penso che la guerra debba diventare un tabù come l’incesto e che si possa ripensare l’idea di un conflitto in cui non è prevista l’eliminazione di un contendente. Per fare questo si deve proporre una lettura critica della storia e della politica che è arrivata ormai a questo capolinea. Non riesco a pensare ad altro che allo sviluppo delle capacità critiche per poi operare uno spostamento di quel senso comune che è ormai abituato ai bollettini di guerra come alle previsioni del tempo. Riproporre un modo di affrontare i conflitti che sia vantaggioso per i contendenti, sostituire i significati di FORZA, POTENZA con altri , quali?
Le parole come cura, autorevolezza, relazione, vanno ripensate e arricchite, forse bisogna scoprirne delle altre .