“C’era una volta in Anatolia”, film di Nuri Bilge Ceylan
Passa silenziosamente la bellissima figlia del sindaco del villaggio. Porta un vassoio; il suo volto è illuminato dalla luce di una candela in un gioco di riflessi che richiamano Georges de la Tour.
Scena da antologia del cinema questo improvviso passaggio della bellezza femminile riflessa nello sguardo di un gruppo di uomini: l’assassino, suo fratello, il commissario di polizia, il medico legale, il procuratore.
Divisi in tre macchine, vagano in cerca del cadavere di un uomo nella steppa dell’Anatolia. L’accusato racconta che era ubriaco. Non ricorda dove ha sepolto la vittima. Gli altri lo incalzano, lo scuotono, lo seguono. Compiono gesti normali.
Dietro ai loro gesti, il regista, Nuri Bilge Ceylan, riesce magicamente a far emergere – di nuovo come nel gioco di riflessi di una candela – la vita di ognuno tra colpa e disperazione; nostalgia e desiderio.
“C’era una volta in Anatolia” (titolo in omaggio a “C’era una volta in America” di Sergio Leone) non è tanto una indagine poliziesca quanto la scoperta di sé, nel tempo che divide le tenebre dall’alba.
Il delitto è compiuto fin dal principio. L’intera storia, quasi tutta al maschile (“Se vuoi che le cose cambino, devi andare là fuori e cambiartele da solo. Perché in questo mondo non ci sono le fate madrine”), si svolge sotto lo sguardo muto delle donne. La differenza femminile agisce. Nonostante il silenzio. Qualcosa vorrà pur dire che la moglie del regista, Ebru Ceylan, è la sceneggiatrice del film.
Una signora è uscita dal cinema (eravamo quattro spettatori) assalendo la cassiera e maledicendo i francesi che hanno assegnato al film il Gran Premio della Giuria di Cannes 2011. Amato oppure odiato per la sua lentezza, per l’assenza di trama, per l’indifferenza al tempo cinematografico “C’era una volta in Anatolia” sa smuovere qualcosa di profondo. Qualcosa, forse, sull’esistenza umana che non vogliamo vedere.