L’orribile attentato avvenuto a Brindisi in cui è morta Melissa di 16 anni e altre sette sue compagne sono state ferite ci ha lasciate sgomente. La bomba è stata fatta esplodere davanti all’Istituto scolastico femminile dedicato a Francesca Laura Morvillo Falcone, uccisa dalla mafia nella strage di Capaci di venti anni fa. Tutto questo in un periodo in cui, nel meridione, tante donne, con modalità differenti stanno con grande forza erodendo alla base la logica delle mafie. Di tutto questo ci ha parlato in vari scritti Franca Fortunato, della “Città Felice” di Catania. Pubblichiamo gli ultimi due articoli di Franca.
“ CONTRO LA MAFIA … PERCHE’ DONNE”
DOSSIER SU “MAFIA,CAMORRA,’NDRANGHETA/SICILIA,CAMPANIA,CALABRIA”
PUBBLICATO SU IL QUOTIDIANO DELLA CALABRIA IL17.05.2012
MEZZOCIELO, la rivista di politica, cultura, e ambiente, pensata e organizzata da donne di Palermo e diretta da Rosanna Pirajno, ha dedicato il suo ultimo numero “Contro la mafia … perché donne. Dossier su mafia, camorra, ‘ndrangheta/Sicilia, Campania, Calabria” alle collaboratrici e testimoni di giustizia. L’idea del dossier è venuta dopo l’iniziativa di dedicare l’8 Marzo alle donne calabresi collaboratrici di giustizia, promossa dal direttore del Quotidiano della Calabria, e che Mezzocielo ha fatto sua. Donne calabresi, campane, e siciliane, nei loro scritti, fanno un’analisi accurata delle ragioni che spingono le donne delle mafie, “eretiche scatenate contro la mafia”, come le chiama Gisella Modica, “luminose costruttrici di libertà” per Simona Mafai, a farsi testimoni o collaboratrici di giustizia, là dove questo avviene. Qual è, ad oggi, la situazione nelle mafie delle collaboratrici o testimoni di giustizia? Se nella camorra non esistono le collaboratrici di giustizia, ma solo vittime o complici di “una complicità che invade le coscienze accecandole”, come scrive Luisa Cavaliere, in Cosa Nostra, in Sicilia, “il numero delle collaboratrici di giustizia è esiguo”. Alcune di loro, come scrive Anna Puglisi, hanno scelto di collaborare dopo aver subito una incriminazione per associazione mafiosa, come Carmela Iuculano, sposata con un boss mafioso legato ai corleonesi di Bernardo Provenzano, che ha accusato suo marito di essere un capomafia, un assassino e un estorsore, o per omicidio, come Giusy Vitale, divenuta capomendamento al posto dei fratelli in carcere. Altre si sono decise soltanto dopo l’uccisione di una persona cara, costituendosi parte civile, come Maddalena Gambino, Luisa Prestigiacomo, Elisabetta Randazzo, Ignazia Balsamo, Giuseppina Montalto, Caterina Somellini.
E le cause sono diverse, non ultima la ricerca della vendetta, come è stato dichiarato apertamente da alcune di esse. Vitale e Iuculano hanno detto, invece, di averlo fatto per amore dei loro figli, come anche in parte le collaboratrici calabresi, perché potessero crescere lontano da un ambiente intriso di violenza. Anzi, nel caso della Iuculano, sono state le due figlie più grandi, che, rese consapevoli per l’attività antimafia della loro scuola, l’hanno spinta a troncare il rapporto con la famiglia del marito. Donne che, in ogni caso, come dice Nadia Funari, “aprono una crepa nel sistema ed è questo che importa”. Ma, se in Sicilia sono le figlie che spingono le madri a rompere con la famiglia mafiosa, in Calabria sono le madri, come Giuseppina Pesce, Lea Garofalo, Maria Concetta Cacciola e le altre, che a partire da quello che desiderano per sé, autorizzano le figlie a rompere con la famiglia mafiosa dei padri e dei parenti, a farsi parte civile contro di loro, come nel caso di Denise, figlia di Lea.
E se in Sicilia le donne stanno aprendo “una crepa” in Cosa Nostra, in Calabria stanno aprendo “una voragine” nella ‘ndrangheta. La mafia calabrese, che ha sempre goduto del consenso delle sue donne, come emerge dal dossier, è quella che, in questo momento storico, più delle altre mafie sta subendo colpi pesanti, che mettono in discussione la sua stessa esistenza, per via di quella identificazione tra famiglia di sangue e famiglia mafiosa di cui le donne, per generazioni, ne hanno garantito sopravvivenza, omertà, consenso e continuità. Una ‘ndrangheta che si è costruita, come scrive Francesca Viscone, anche un suo mercato musicale, con “canzoni prodotte da piccole case discografiche di Reggio Calabria” e con “concerti in Belgio e Germania”. Una strada, quelle delle donne che abbandonano le mafie, certo, tutta in salita, ma che rende libere loro e inutili gli studi sui ruoli femminili nelle mafie, secondo il paradigma dell’emancipazione e della dicotomia vittime – complici.
PER AMORE DELLA LIBERTA’
PUBBLICATO DALLA RIVISTA BIMESTRALE “MEZZOCIELO” – MAGGIO 2012
LA ‘NDRANGHETA è sempre stata , ed è, un fenomeno criminale costruito dagli uomini all’interno di un ordine sociale e simbolico patriarcale, fondato sulla famiglia e sulla subordinazione all’uomo della donna in quanto madre, sorella e figlia. Tale subordinazione è stata sempre il punto di forza dell’organizzazione. Il fatto che la famiglia di sangue e la famiglia mafiosa coincidessero, ha consentito alla ‘ndrangheta di evitare fenomeni come il “pentitismo” e quando c’è stato qualche pentito non ha mai pensato di ucciderlo, né di uccidere i suoi familiari, se non a condanna definitiva.
La strategia scelta è stata quella, tramite le mogli e con molto denaro, di fare pressione sul pentito perché interrompesse la collaborazione. A un certo punto, una nuova minaccia, più potente, ed imprevista, si è abbattuta su di essa. Mi riferisco alle tante donne, testimoni e collaboratrici di giustizia, che, in questi ultimi anni, hanno tolto agli uomini quello che le loro madri, per generazioni, avevano garantito: fedeltà e complicità, subordinazione e omertà, continuità e forza. Sono queste figlie che, con le loro scelte, oggi stanno erodendo la ‘ndrangheta fin dalle fondamenta, almeno quella che conosciamo fino ad ora. Lea Garofalo, assassinata e sciolta nell’acido dopo essere stata torturata. Giuseppina Pesce, figlia di una delle più potenti famiglie mafiose della Piana di Gioia Tauro che, con le sue dichiarazioni, ha fatto arrestare anche la madre e la sorella. Maria Concetta Cacciola, fatta “suicidare” dalla famiglia, dopo aver iniziato la collaborazione. Tina Buccafusca, moglie del boss Pantaleone Mancuso di Nicotera, “suicida” prima che iniziasse la collaborazione con i magistrati. Rosa Ferraro, testimone contro i Pesce nel processo “All’Inside”. Sono loro la prima generazione di donne, nate e cresciute in famiglie mafiose, che con le loro scelte stanno trasformando in debolezza quello che è sempre stato motivo di forza per la ‘ndrangheta. La coincidenza delle due famiglie. Lasciano mariti che non amano più, collaborano con i magistrati, denunciano genitori, parenti, familiari, mettono in discussione l’autorità e l’identità dei maschi dentro e fuori la famiglia.
La reazione violenta dei loro uomini era prevedibile, loro lo sapevano, come lo sanno le tante vittime della violenza maschile sul corpo delle donne (mogli, fidanzate, ex, sorelle, figlie) che decidono di lasciare i propri uomini e riappropriarsi della propria esistenza. Che cosa spinge queste donne a rischiare la vita? Da dove traggono la loro forza? Per che cosa lottano e, a volte, muoiono? Per il desiderio di legalità e giustizia, come ripetono in molti? Non credo proprio. “Lo faccio per i miei figli, solo per i miei figli, e per me stessa, per avere una vita migliore”. E’ quanto ripetono tutte. Nessuna di loro rinnega la famiglia da cui proviene, abbandona il marito mafioso, per il trionfo della legalità, ma solo e soltanto per amore di sé e delle proprie creature. E’ la libertà femminile che cammina nel mondo e che fa paura a tanti uomini, anche e ancora di più ai mafiosi.
Il prezzo che queste donne stanno pagando, o rischiano di pagare, è alto, molto alto. Un prezzo doloroso, certo, ma non inutile. La misura delle loro scelte non è la quantità di arresti di mafiosi o la distruzione stessa della ‘ndrangheta, queste sono solo secondarie, vengono, se vengono, solo dopo il guadagno di consapevolezza della propria libertà, che queste madri stanno trasmettendo alle loro figlie. Basta pensare a Denise, figlia di Lea Garofalo, che si è costituita parte civile contro il padre, in nome della madre, grazie a cui ha potuto dire ai suoi parenti: < Lo so che per la vostra mentalità sto sbagliando, ma voglio avere la possibilità di avere una vita diversa>. E una vita diversa la chiedono anche Annamaria Molé e Roberta Bellocco, appartenenti a due delle più potenti famiglie mafiose della Piana di Gioia Tauro, studentesse del Liceo scientifico di Rosarno che, in un convegno sulla legalità, organizzato dalla scuola, hanno dato testimonianza del loro desiderio di essere libere di poter vivere la propria vita, nonostante il nome che portano. Donne di una Calabria attraversata dalla libertà femminile. Dico questo pensando anche ad Anna Maria Scarfò di Taurianova, che ha denunciato e mandato in carcere i suoi violentatori, alcuni dei quali mafiosi. Alle sindache Elisabetta Tripodi di Rosarno e Carolina Girasole di Isola Capo Rizzuto, che quotidianamente governano la propria comunità, rischiando la vita.
A tutte le donne che nelle scuole insegnano alle più giovani l’autorizzazione ad essere libere. Scuole frequentate anche dalle figlie dei mafiosi. Insomma, le collaboratrici sono parte di una Calabria che sta cambiando, che è già cambiata, grazie alle donne. Vedere e riconoscere nel desiderio di libertà le reali ragioni che spingono le donne a collaborare con la giustizia, impone a rivedere i paradigmi stessi della lotta alla mafia. Le collaboratrici non possono essere separate dalle figlie e dai figli, lasciate/i a quella famiglia da cui vogliono fuggire, come è avvenuto per Maria Concetta Cacciola. Una donna, una madre va protetta insieme, e non separata, dalle figlie e dai figli, indipendentemente dagli arresti o meno conseguenti alle sue dichiarazioni. Questo vuol dire che non si può continuare a guardare alla lotta alla ‘ndrangheta senza tenere conto della differenza sessuale. Donne e uomini non sono la stessa cosa, neppure nella lotta alla ‘ndrangheta.