Di che cosa parliamo quando parliamo di cura? È la domanda che viene rivolta alle femministe del “gruppo del mercoledì” – di cui faccio parte – da quando, come supplemento al n. 89 della rivista Leggendaria, abbiamo pubblicato il documento La cura del vivere. Domanda che variamente formulata si ripete nei diversi incontri che dal primo, tenuto a Roma a fine ottobre dello scorso anno, si susseguono in varie città, i più recenti a Milano, Napoli, con prossimi appuntamenti a Bologna e Genova, mentre a Roma si tengono incontri mensili, aperti a chi desidera discutere, donne e uomini.*
Di speciale interesse è che esattamente la stessa domanda ha guidato la riflessione del gruppo, nel tempo necessario – più o meno un anno – a elaborare il documento, fino a metterne a fuoco la conclusione: «Confidiamo nel rovesciamento che si produce nel mettere la cura al centro delle relazioni tra persone e della politica. Vorremmo scommettere sulla nuova dimensione che si apre nell’esistenza, nel farne asse della vita e dell’azione». Una domanda che permette di percorrere gli snodi di questa proposta ambiziosa – niente di meno che un paradigma che unisce vita e azione, naturalmente azione politica. Cura, in effetti, è una parola, un concetto, una pratica complessa. Se si consultano i vocabolari si trovano stringhe di significati. Alcuni vanno da attenzione e sollecitudine, ad affanno e preoccupazione, quindi coprono la sfera degli atteggiamenti e posizioni mentali e/o affettive. Altri rimandano a “oggetti”, come l’insieme di prescrizioni per una malattia, o compiti/ servizi in determinati ruoli, per esempio (arcaico) di amministrazione, o in lavori intellettuali, la cura di un libro o di una mostra. Parola latina, che etimologie ingenue collegavano a “cuore”, sembra risalire a una radice sanscrita che riporta al significato ‘osservare’. Insomma, cura è una parola ponte. Nell’esperienza e nella concettualizzazione.
Se la cura è un destino
Il destino femminile è ciò a cui mi sono –ci siamo – ribellate, sottratte, spostate, noi femministe degli anni Settanta. Il destino della femminilità, un destino di subordinazione, in cui la cura, l’educazione alla cura, era la parola chiave, in un groviglio inestricabile tra maternità, amore, servizio, sottomissione alla famiglia, al patriarcato. Per alcune – Simone de Beauvoir è stata un modello autorevole – rifiutare il proprio destino è stato in primo luogo rifiutare l’esperienza della maternità, altre hanno scelto di viverla. Tutte hanno sperimentato una faticosa giustapposizione di realtà inconciliabili tra vita, lavoro, politica. Per questo ragionare sulla cura attrae e respinge nello stesso tempo, almeno le donne. Perché è qualcosa che si conosce, a qualunque età. Perché appare una prigione, eppure si sa, se la si pratica, che ci sono elementi vitali, di desiderio.
Insomma, la domanda è: la cura è sempre un’imposizione? O può essere una scelta? Si può essere libere e curare?
Arrivare a questa domanda è stato dirompente, per l’elaborazione del gruppo. Era un momento di impasse, da qualche riunione si girava a vuoto, tra ricordi, snocciolamento di dati sul lavoro di cura, letture di romanzi e testi che ci hanno ispirato. L’impuntatura aggrediva lo strato opaco, roccioso dell’esperienza e della riflessione di ciascuna, il nodo tra l’autonomia conquistata, e una perdita difficile da nominare e riconoscere. È in questo nodo che la cura si è svelata rovesciata, sovversiva.
«Qui si rovescia l’idea di cura» dice il documento. E prosegue:
«Se era considerata costrizione o negazione dell’autodeterminazione femminile – sono io che scelgo, io che decido, io che non mi sacrifico – adesso si trasforma in “paradigma di interesse generale, garante della qualità dei rapporti e dei legami”. Un paradigma che ci interessa se consideriamo la cura sia una dimensione della riproduzione della vita, sia il terreno su cui contendere “il comando” sulle vite in questa contemporaneità globalizzata. Questo comunque è il cambiamento del quale tenere conto, nella conoscenza e nella politica…Rovesciare l’idea di cura produce un cambiamento di senso. Molto vicino al diverso modo in cui le donne oggi considerano il lavoro. Il lavoro di cura come destino obbligato delle donne non è più l’esperienza corrente, anche se non nello stesso modo in tutte le parti del mondo. Eppure è una prospettiva di trasformazione per tutte. E tutti».
Si tratta di un rovesciamento reale o di un artifizio dialettico? Molte donne diffidano, nel sentire parlare di cura, avanzano obiezioni. Nella crisi, si dice, le donne perdono il lavoro, lo stato non può finanziare il welfare, neanche quel minimo che finora riesce a garantire. A porre la cura al centro della nostra pratica, non partecipiamo alla ricostruzione della nostra gabbia?
È un’obiezione da prendere sul serio. La mossa del rovesciamento è fondativa, per costruire l’asse di un paradigma efficace, è bene indagarne la solidità. Che vorrei esplorare – qui molto velocemente – dal punto di vista dell’opposizione pubblico/privato, scardinata dall’apparizione della soggettività femminile. Ovvero sia dalle singole donne, che si assumono la responsabilità della propria vita, sia dalle donne che insieme, a partire da sé e dalla propria singolarità, cambiano le forme della vita comune, di donne e uomini.
Insisto, perché mi pare che non sia mai abbastanza chiaro la portata del cambiamento. Il privato non è più la zona d’ombra della scena pubblica, le donne non sono più le custodi di un’intimità, e di una riproduzione della vita affidata interamente alla loro cura. Naturalmente un’affermazione così perentoria non significa ignorare che i processi sono in corso e soprattutto che non avvengono in modo lineare, non sono atleti che corrono verso il traguardo. I processi di cambiamento, lo sappiamo, lo vediamo, sono tortuosi, spesso oscuri. Di tutte le modellizzazioni la più chiara mi sembra la spirale, che va verso l’alto, ma in certi punti sembra proprio di essere più in basso e più indietro di prima.
Insomma, la cura può essere rovesciata ora che la cura non è più il destino obbligato delle donne, almeno nella parte del mondo in cui viviamo. E la continuità che ci troviamo a vivere tra vite e lavoro, tra esperienza e politica, tra affetti e teorie, garantisce che rovesciare la cura non è la mascheratura di un ritorno indietro, ma lo spostamento messo in atto dal soggetto che quel cambiamento ha operato. Se la cura era una delle catene che imprigionavano le donne, nella liberazione si può trovarne il valore. Perché, abbiamo scritto nel documento «tra produzione e riproduzione, non c’è separazione».
Ciò che rimane
C’è un lavoro, nella cura. Un lavoro del soggetto, che non coincide totalmente con il lavoro di cura. Non insisto qui sul lavoro di cura, come è stato chiamato da femministe , studiose, politiche, esperti/e di welfare, quell’insieme di attività di varia natura che portano alla riproduzione della vita e vanno dall’approvvigionamento alla preparazione dei cibi alla cura delle persone grandi e piccole, della casa, dei servizi. Un lavoro incessante e necessario, mai calcolato come produttivo, nonostante le proposte di ricalcolo del Pil o di bilanci di genere, perlopiù considerati ameni esercizi di buona volontà. Proprio in virtù di quella categorizzazione che divide, e vuole continuare a dividere, nonostante l’evidenza, tra privato e pubblico, vita e lavoro, intimità e politica.
Un lavoro svolto prevalentemente da donne –per destino appunto, per obbligata dedizione e preteso amore – che il capitalismo globale vuole immettere nel mercato, per aumentare il proprio valore nella crisi.
È un punto tutto da discutere. Mercato e politiche pubbliche – se ancora esistono – si contendono uno spazio promettente, che mette al lavoro l’eccedenza femminile. In cambio di che cosa? Una promessa di parità? Una mossa che ha che fare proprio l’attuale svalorizzazione del lavoro, intendo il classico lavoro salariato, con i lavoratori che perdono potenza sociale e politica. Una mossa che dovrebbe aprire gli occhi sulla posta in gioco della biopolitica, terreno di elezione della cura, su cui la cura, proprio perché unitiva, può agire.
Per questo nel documento si mette l’accento su ciò che resta, della cura. Sul lavoro trasformativo del soggetto che cura, e che nel curare, nell’agire la cura che ha scelto liberamente, ne scopre e mostra la potenza. Che non si esaurisce nel gesto, nel lavoro eseguito, incorporato in quel letto rifatto, nell’assistenza fornita, neppure nella carezza data, unica tra le azioni descritte che non sia quantificabile, quindi riproducibile, quindi monetizzabile. Quello che resta, quello che abbiamo chiamato «il prezioso tesoro della cura», è ciò che unisce: la soggettiva scelta del curare, la postura mentale, si potrebbe dire, e la cura realizzata nell’azione.
Insomma, la parola cura porta con sé, e per questo irrita molti e molte, un richiamo che appare spirituale. Perché ha a che fare con l’attenzione e il fare, con la materialità dell’esperienza e il senso, il significato, con la consapevolezza e la pratica della consapevolezza. Nella stessa parola, che unisce e non divide piani che siamo abituati a considerare differenti. Anche se, naturalmente ci può essere lavoro di cura senza alcuna consapevolezza. Soprattutto quando è vissuto come un destino imposto. Non nel rovesciamento, questo ci importa. Non se l’accento è su ciò che resta.
Cura, lavoro, politica
La politica ha bisogno di cura. Il “gruppo del mercoledì” ne aveva già parlato, proponendo il testo Il coraggio di finire. La proposta della cura è il passo successivo. Si potrebbe dire che se il soggetto –le donne – che nella cura era stato imprigionato indica nella “cura” l’asse dell’azione, è in atto una trasformazione, per tutti. È importante che gli uomini, che della cura hanno esperienza soprattutto perché ne sono oggetto, si pongano come soggetti, accogliendo questa proposta. Come tutte le pratiche, la cura ha zone d’ombra, lati autoritari. Se la madre è la prima fonte di cura, non si può nascondere che può essere esercitata come potere e tirannia. Un aspetto che gli uomini, più delle donne temono e odiano, fino a farne pretesto e fondamento del patriarcato.
Non a caso abbiamo messo cura a non confondere attenzione e materno, delle madri conoscendo l’oscurità oltre che la luce. Parola che unisce, la cura è un eccellente asse per indagare relazioni, pratiche, teorie. Perché la politica, da cui la cura è assente, è così astratta, spersonalizzata, oggettivata? Perché i tempi della scena pubblica, dal lavoro alla politica, sono così lontani dai tempi della vita quotidiana, che pretendono di rappresentare e normare?
Assumere la cura come punto di vista, nella differente ottica dei sessi e dei generi, non è – non mi sembra che sia – un ulteriore rimestare nella femminilizzazione, in quel divenire donna della politica e del lavoro che non è altro che un ulteriore mascheramento del maschile, che vuole le donne all’inseguimento di travestimenti inafferrabili e frustranti.
Cura non è una maschera, né una mascherata. In antico, lo ha ricordato Foucault, la cura di sé era una pratica di interiorizzazione di disciplina del corpo e della mente che si accompagnava all’esercizio del potere. Anche smisurato, narra Marguerite Yourcenar, nei panni di un imperatore. Cura è uno stare, anche e soprattutto nel conflitto, che della politica è un ingrediente ineludibile. Agire la cura, agire con cura non è non-agire, ma trovare nei conflitti i punti in cui stare, e guardare nello stare dove è il cambiamento da intraprendere. È avere a cuore l’umano, le relazioni, cercare sempre non la distruzione, ma la strada che cura la vita. Che cura che vita, lavoro, politica non siano sfere separate. Azione possibile perché la proposta viene, e accoglie senza chiedere identificazioni e mascheramenti, da chi di quell’organizzazione, di quell’assetto separato è stata vittima.
Un asse fondamentale, in tempo di crisi, in tempo di aggressione ad opera del nuovo capitalismo globale. Crisi del pianeta, mai così minacciato dallo sfruttamento della terra. Crisi economica, che riporta in piena luce lo sfruttamento degli essere umani. Crisi politica, dove mancano idee, visioni che ispirino l’azione. Non che manchino pratiche di solidarietà, di condivisione, di attenzione al mondo, alle relazioni. La cura, che ne è parte essenziale, è una strategia di presa di coscienza, di consapevolezza e di forza da praticare.