Marco Doria, candidato sindaco di Genova per la sinistra (lo sostengono Pd, Sel e Idv), invitato l’8 marzo da Se non ora quando insieme agli altri 10 concorrenti, si è impegnato a inserire il 50% di donne sia nella propria lista sia – se vincerà – in giunta e nella dirigenza di tutte le aziende partecipate del Comune. Pretende prima di tutto e da ciascuno/a onestà e competenza: ma – ha aggiunto – i numeri contano eccome, e le donne possono finalmente rinnovare l’usurato personale politico italiano.
Non era partito così bene il cinquantenne docente di economia, figlio di uno studioso di antico e nobile casato che fu diseredato nel dopoguerra dalla famiglia per aver preso la tessera del Pci. Nell’incontro di gennaio scorso progettato dall’Udi per sondare i candidati alle primarie della sinistra sulle tematiche di genere, Doria aveva fronteggiato con poche parole e qualche incertezza Marta Vincenzi, Pd, sindaca uscente e Roberta Pinotti, senatrice Pd. Le due contendenti a loro volta non l’avevano degnato di uno sguardo. Chi era costui? Eppure molte giovani di Snoq e molte femministe d’ogni età hanno da subito manifestato simpatia per Doria, votato poi sia dai diseredati di don Gallo sia dai borghesi illuminati sia nelle zone operaie del Ponente, dove Marta, che lì è nata e tuttora vive, aveva sempre trionfato.
La delusione verso Vincenzi di tante donne organizzate e singole era palpabile: in tante l’accusano giustamente di non averle ascoltate né valorizzate in questi 5 anni. Non è piaciuta neppure la contesa tra lei e la sua ex delfina, una lite che ci indebolisce tutte: sulle “due zarine” i media hanno affondato i canini, felici di veder altercare due donne, spettacolo che sempre manda in solluchero gli uomini e persino li eccita. Roberta Pinotti, che proprio Marta volle giovane sua assessora in Provincia, è poi decollata verso Roma, arrivando a dirigere la Commissione Difesa in Senato. È parsa ad alcuni una pacifista pentita, ad altri un’ambiziosa traditrice della Vincenzi. Insomma ha preso solo 4 mila voti malgrado il Pd – che non aveva però il coraggio di disfarsi della sindaca uscente – puntasse molto su di lei. Inoltre è ormai evidente in ogni tappa delle primarie che l’opinione pubblica non vuole politici di lungo corso e non solo a Genova. Il comportamento della sindaca dopo l’alluvione del 4 novembre 2011, poi, non è piaciuto a nessuno e molti sono gli errori di questa donna esuberante e intelligente, che però questa volta non appariva più il nuovo femminile che avanza. E in effetti l’esser donna non basta più se non si usa e mette in circolazione la forza femminile e un altro sguardo sul potere e sulla politica.
Difatti l’8 marzo, inaspettatamente, il vincitore era l’outsider Doria con il 46 per cento dei voti. Ma dal primo confronto con l’Udi aveva studiato molto e ascoltato le sue concittadine (sul modello milanese di Pisapia) tanto da promettere solennemente il 50 per cento di donne e da trascinare il candidato di centro destra Enrico Musso, costretto a assicurare a sua volta a Snoq che si avvarrà delle quote di genere, anche se non le ama affatto. In questo clima post berlusconiano di riscossa le associazioni femministe, femminili e tante donne genovesi, me compresa, hanno subito pressato Doria molto di più di quanto non accadde nel 2007 quando si candidò Marta. Lei ha però in parte influito, secondo me, sul percorso del candidato. Penso che contasse il fatto che a guidare la città per 5 anni sia stata una sindaca che alle primarie ha comunque avuto oltre il 27 per cento dei voti. Sommati al 23,6 per cento di Pinotti, questi voti sono oltre il 50 per cento dei 25 mila genovesi andati alle urne. Una metà disposta a puntare di nuovo su una donna, c’era. Eppure nessuna delle due ha vinto.
Chissà se dalla sconfitta di Marta possiamo tutte e tutti imparare qualcosa sul modo di stare in politica di una donna. Eletta a furor di popolo già nei primi Novanta e per ben due volte come presidente della Provincia, ha poi stravinto le elezioni nel 2007 malgrado il Pd già allora la ostacolasse, volendo piuttosto candidare un bravo notabile di partito. Allora lei era il nuovo, in questa tornata ha pesato, oltre al resto, la sua lunga carriera nel partito. E poi ha un brutto carattere, non ascolta, non fa squadra e non è diplomatica. È figlia di un operaio comunista, non viene dai salotti buoni della borghesia come i sindaci precedenti. Non ha una storia femminista, ma non mi pare che odi il proprio sesso: forse non le interessa molto e perciò non ha puntato troppo sulle donne, anche se lei sostiene – giustamente – che non aver tagliato sui servizi è stato a loro favore.
Ma poi? Le donne organizzate avrebbero davvero potuto e voluto darle una mano. Non ci sarà nei suoi confronti un di più di misoginia? Tutti quei peccati, tanto diffusi anche tra i maschi della sinistra, pesano il doppio se sei femmina? Quasi tutti i maschi del suo partito l’hanno detestata anche quando garantiva la vittoria proprio perché non è governabile, non è ornamentale e ha disobbedito nominando, ad esempio, assessori e dirigenti comunali chiamati da fuori e non infeudati nella rete di poteri locali.
Difficile azzardare risposte. Esternava troppo, era sempre protagonista, non ha saputo comunicare il lavoro della propria giunta. La solitudine non aiuta, dicono molte tra quelle poche arrivate ai posti di potere politici. I partiti, persa la capacità di decifrare la realtà, non intercettano neppure le nuove competenze femminili, il desiderio di contare di tante. E con la crisi, cariche e stipendi, sono difesi a mano armata dagli uomini. Vincenzi, in un altro incontro con Snoq, in febbraio, ha aggiunto un tassello utile spiegando che negli anni Novanta, subito dopo Tangentopoli, le fu più facile fare la giunta provinciale con il 50 per cento di femmine: “Si guardava a noi donne come a una novità che avrebbe bonificato la politica, si puntava sulle nostre mani pulite. Ma i partiti da anni non scommettono più sulle donne. Nel 2007, quando sono diventato sindaco, non sono più riuscita a imporre metà donne nella mia giunta. Da sola non ce la puoi fare”. Senza farsi forza sulle donne, ribadisco, è rimasta ancora più sola al comando.
Ma come fare ad andare oltre? Non ci sono praticamente più donne che dall’interno dei partiti di sinistra fanno battaglie di genere. Con questo sistema elettorale, il porcellum, sono tutte non elette, ma nominate dai maschi: perché dovrebbero disturbarli? Coltivo la speranza che le donne organizzate, così attive a genova in questi mesi di campagna elettorale, possano influire sul modo di fare politica, sui contenuti e sulle candidature.