Chi ha qualche anno in più non può averlo dimenticato: il film in cui una giovane e sventata cameriera di un pub viene stuprata da tre uomini incitati con urla e schiamazzi dagli altri avventori. Per quel film (“Sotto accusa” diretto da Jonathan Kaplan) Jodie Foster meritò l’Oscar. E gli spettatori, anche i più insensibili, riconobbero un vergognoso lato di se stessi e dei propri simili guardando uno stupro di gruppo e la vigliaccheria di quanti, pur non compiendo materialmente la violenza, ne erano partecipi, complici e corresponsabili.
Forse nessuno dei giudici della Terza sessione della Corte di Cassazione ama il cinema e ha visto quel film. Forse nessuno ha mai guardato negli occhi una donna vittima di un “branco” di maschi. Altrimenti non avrebbe potuto equiparare la violenza di gruppo allo stupro individuale. Certo, come dice Giulia Buongiorno, è difficile fare una classifica degli orrori. Ma la giustizia dei tribunali è fatta di aggravanti e di attenuanti e ogni decisione in merito assume una valenza simbolica e culturale.
Per questo, io credo, donne di età e di mondi diversi si sono indignate per la sentenza che lascia decidere al giudice caso per caso se consegnare gli imputati di stupro alla custodia cautelare in carcere o adottare altre misure. La Cassazione si rifa a una precedente decisione della Corte Costituzionale che attenuava le disposizioni di una legge, scritta sull’onda dello stupro della Caffarella, secondo la quale non potevano esserci arresti domiciliari per gli imputati di reato sessuale. Vuol dire che lo stupro, per di più di gruppo, vale meno di un delitto di mafia? Questo si chiedono le donne. Vuol dire che i giudici lo considerano un reato minore? Che non capiscono che la violenza sulle donne è un’emergenza sociale come la criminalità organizzata?
Su Facebook sono questi i post che si susseguono, mentre si annunciano lettere e petizioni. Loredana Lipperini pubblica sul suo blog il monologo di Franca Rame sullo stupro, quel recital-testimonianza, trasmesso dalla Rai in una puntata di “Fantastico” nel 1988, che fece emozionare mezza Italia. Anche i giornali non rinunciano alla titolazione a effetto lasciando credere che non ci sia più carcere per gli stupratori, anche se condannati.
Infatti, non c’è solo la questione simbolica. Si sta parlando di imputati, di uomini dei quali non è ancora stata processualmente confermata la colpa. Si sta parlando di carcerazione preventiva. Siamo proprio sicure, noi donne soprattutto, di volerla a tutti i costi? Siamo certe che debba essere sempre e comunque la galera a sancire la gravità dell’offesa che abbiamo subito? Viviamo in un paese dove più di un terzo dei detenuti sono in attesa di giudizio e dove le condizioni di carcerazione sono da tutti definite inumane. Vogliamo davvero che sia obbligatorio per tutti gli imputati di reati sessuali attendere il processo in carcere?
Ma, si obietta, non si possono usare due pesi e due misure: se si va in prigione per una qualsiasi rissa fuori da una discoteca, o per qualche grammo di droga, perché dovrebbe beneficiare dei domiciliari chi è accusato di violenza sessuale? Giusto. Ma forse siamo abbastanza forti e mature per chiedere per tutti un uso più saggio del carcere preventivo.
Trent’anni fa, quando ci siamo battute perché la violenza sessuale fosse considerato un reato contro la persona e non, come prevedeva la legge di allora, contro la morale, sostenevamo che non era l’entità della pena che ci interessava. Piuttosto l’affermazione di un principio, di un valore. Quello dell’inviolabilità del nostro corpo. E quindi della nostra psiche, della nostra anima. Perciò, fatte salve le ragioni della sicurezza, soprattutto da noi dovrebbe venire un grande rispetto per il corpo degli altri. Compresi gli imputati.