L’avevano detto in tante che era temeraria la scelta di piazza del Popolo a Roma: tornarci dopo quel 13 febbraio che aveva visto migliaia e migliaia (mai così tante) rispondere con un “Adesso” tonante al “se non ora quando?” gridato dal palco era un rischio forse non abbastanza calcolato. Il confronto comunque sarebbe stato inevitabilmente ingeneroso. Ma la fortuna e la istintiva fiducia nella voglia femminile di partecipare ha aiutato le audaci. La piazza ha fatto fatica a riempirsi e ancor di più a scaldarsi, ma alla fine molte donne e molti accompagnatori sono arrivati. Anche se era la domenica di fine ponte, anche se via del Corso era stracolma di gente per un parsimonioso shopping natalizio, anche se la Cgil non aveva aderito e i media ne avevano parlato quasi niente, anche se una parte dei comitati Snoq erano stati in dissenso, la piazza c’era. E questa è già una notizia. Titolo: la prima manifestazione politica sotto il governo Monti chiede un paese a misura di donna. E cioè? La lista è lunga, ma senza un vero centro di gravità. Un nuovo welfare certo, ma che pensano le donne del fatto che per femminilizzare lo stato sociale bisogna smantellare (in parte, almeno) quello che era stato costruito a misura di maschio capofamiglia con contratto a tempo indeterminato? Ci vuole un pink new deal, come dicono le economiste di ingenere.it, che introduca crediti d’imposta, investa nelle infrastrutture sociali, istituisca un assegno di maternità universale e renda obbligatorio il congedo di paternità. Ma intanto il governo allunga l’età pensionabile senza dare niente in cambio e in tutta Europa il lavoro femminile, in molti paesi concentrato nel pubblico impiego, viene drasticamente ridimensionato.
Piazza del Popolo sembrava respirare queste incertezze, anche se si riconosceva nelle difficoltà del vivere di chi parlava dal palco. Gli uomini erano numerosi, a conferma del fatto che in questi tempi di “sospensione della politica” tocca alle donne offrire luoghi di espressione anche a loro ( infatti “se non le donne, chi?”). Le giovani, belle e intense sul palco sia che cantassero o raccontassero la loro storia di precarie, di madri trentenni, di immigrate di seconda generazione, erano poche nella piazza. La mezza età prevaleva. Tante femministe d’antan (come chi scrive) erano là come osservatrici solidali, altre avevano riscoperto la militanza dandosi da fare nel comitato organizzatore, altre erano rimaste a casa. Donne del Parlamento e delle istituzioni poche, da contarsi sulle dita delle mani. Ai bordi del palco, come spesso accade, serpeggiavano polemiche. Il Comitato nazionale di “Se non ora quando” avrebbe prevaricato i gruppi che volevano tempi e modalità diverse, avrebbe voluto a tutti i costi un evento-spettacolo che era nato sotto un altro segno, quando si pensava alle elezioni anticipate. Il leit motiv iniziale infatti era stato quello della “democrazia paritaria”, del 50 e 50 nelle liste elettorali e poi, dopo la nascita del governo tecnico, il segno sociale era prevalso. “Non basta dire <ci siamo> per contare” aveva scritto Lea Melandri. Non basta un “format” di successo per fare una manifestazione, commentava impietosa Cinzia Romano. In realtà, dice Mariella Gramaglia che di movimenti e di istituzioni ha un’esperienza lunga, sulla passione politica, sulla radicalità delle rivendicazioni sembrava prevalere un altro sentimento: quello della paura. E’ difficile osare quando non sai se il paese e l’Europa tutta ce la faranno a superare la crisi. E con chi prendersela, finito Berlusconi che era un nemico facile facile? Tanto più che il destino di tutti sembra oggi dipendere da una signora che vive in Germania. (Franca Fossati)