Molto più che un contributo a un tema da sempre centrale nell’elaborazione femminista, il testo intitolato La cura del vivere che apre un supplemento monotematico all’ultimo numero di Leggendaria (settembre 2011) è un sasso nello stagno di un discorso economico-sociale che non riesce ad avvalersi della differenza femminile come eccedenza dalla coppia stato-mercato e come leva di trasformazione generale.
Lo firma il «gruppo del mercoledì», un collettivo di donne (Fulvia Bandoli, Maria Luisa Boccia, Elettra Deiana, Laura Gallucci, Letizia Paolozzi, Bianca Pomeranzi, Bia Sarasini, Rosetta Stella, Stefania Vulterini) già autrici de Il coraggio di finire, un documento sulla crisi incrociata della politica e della sinistra, che stavolta lavorano invece sull’esperienza femminile della cura e su ciò che essa implica per la lettura e il cambiamento del legame sociale.
Decostruzione e risignificazione di un termine del lessico corrente, la mossa femminista è sempre la stessa: si tratta di smontare un significato incistato negli stereotipi del femminile e di riscriverlo sulla base del vissuto e della narrazione di donne reali. Sempre declinato – e di conseguenza svalorizzato – come servizio, costrizione, dedizione subalterna, destino obbligato di una condizione femminile svantaggiata, il lavoro di cura si presenta nelle vite femminili di oggi con altre valenze e altre declinazioni, che non per caso vanno assieme alle nuove valenze e declinazioni che nelle vite femminili assume il lavoro tout court: cura è relazione, presa in carico della fragilità che ci accomuna, consapevolezza di una ineliminabile dipendenza dall’altro – in primo luogo dalla madre – che smonta per sempre il figurino dell’individuo autonomo e autocentrato moderno, amore per ciò che si fa, manutenzione affettiva dei contesti in cui si fa.
E dunque, «qui si rovescia l’idea di cura. Se era considerata costrizione o negazione dell’autodeterminazione femminile, adesso si trasforma in paradigma di interesse generale, garante della qualità dei rapporti e dei legami». «Una dimensione del buon vivere» che contiene «una prospettiva di trasformazione per tutte. E tutti».
Ricostruire la parabola di questo rovesciamento dell’idea di cura comporta un riattraversamento dei limiti dell’emancipazione, e anche di alcune stazioni dell’elaborazione femminista sul lavoro. La cura come destino negativo e oblativo altro non era, fino agli anni Settanta, che l’altra faccia dell’emancipazione come scelta di autonomia e autodeterminazione. Sì al lavoro fuori casa, non al sacrificio della «casalinghitudine»; sì al lavoro retribuito per il mercato, no al lavoro domestico gratuito: che se proprio non si può eliminare, proposero alcuni dei primi gruppi femministi, sia almeno riconosciuto e retribuito come lavoro produttivo e salariato a tutti gli effetti.
Oppure, proponeva e propone tuttora il discorso progressista di sinistra, che si dissolva affidandolo ai servizi, agli asili nido per i bambini, alle case di cura per gli anziani: «quasi si vedesse il lavoro di cura solo come un fatto oggettivo, lavori da eseguire o da far eseguire. Quasi che la cura fosse questione da risolvere fra un buon welfare – sempre più un miraggio, in questi tempi di crisi – o la monetizzazione del mercato. Ma sul serio sarebbe tutto risolto?». No, perché la cura non è un lavoro come un altro; no, perché ne va molto della soggettività femminile; no, perché sfugge ai criteri correnti della contabilità economica: «Nell’altalena delle donne fra lavoro e vita c’è un resto che socializzazione totale, servizi organizzati, personale a pagamento non bastano a cancellare, e che né il welfare statale né il mercato possono dare. Un collante, una garanzia affinché il mondo non si regga solo sulle relazioni di potere, ricchezza e sfruttamento, ma restituisca senso alla fragilità, al limite, alla responsabilità».
Una tessitura che, ad esempio, cuce e ricuce quei rapporti fra generazioni declinati ormai dal biopotere neoliberista solo come scontro all’ultimo stipendio o all’ultima pensione. O che, altro esempio, lega in nuove relazioni di alleanza e affidamento, e non necessariamente in vecchie forme di sfruttamento, donne occidentali e donne migranti che si spartiscono l’onere della cura di anziani e bambini. O che, terzo esempio, preserva molti luoghi della vita associata, sociale e politica, dagli strappi continui provocati dalla lotta nuda e cruda per il potere (nel suo contributo al numero, Fulvia Bandoli descrive bene l’«incuria» di cui sono preda oggi partiti e istituzioni).
Resto, eccedenza, tessitura volontaria e non carico subìto, la cura impone dunque tutt’altra definizione della condizione femminile rispetto a quelle correnti e, da qui, tutt’altra lettura del lavoro, del mercato del lavoro, delle politiche sociali. Salta, e questo è chiaro, la contabilità del lavoro e della produttività che prescinde da quelle cinque ore circa al giorno che le donne dedicano alla cura della vita. Ma saltano anche quelle ricette di politica sociale che ritengono di poterlo trasferire interamente su sedi terze e impersonali come i servizi sociali, pensando che per le donne la cura sia soltanto un onere sacrificabile all’efficienza del lavoro per il mercato, e che per la vita sociale sia un residuo eliminabile e non un di più imprescindibile, una palla al piede e non – è proprio il caso di dirlo – un bene comune.
Il discorso si completa e si arricchisce, nel numero di Leggendaria, di una serie di contributi individuali che raccontano l’esperienza della cura nelle sue luci e nelle sue ombre, sporgendosi fra l’altro opportunamente su narrazioni femminili che vengono dal Sud del mondo globale (Bianca Pomeranzi).