Martedì scorso, durante lo sciopero generale indetto dalla Cgil contro la manovra del governo, qualcuno ha appoggiato la sagoma di un grande fallo di cartone al portone del ministero della Funzione pubblica. In una foto, che ho visto pubblicata dal “Fatto”, si distinguevano chiaramente il volto di Berlusconi all’apice della sagoma, e inscritti nelle due rotondità alla base quelli dei ministri Brunetta e Sacconi.
“I diritti non si toccano”, c’era pudicamente scritto al centro del “messaggio”. Il resto del significante non richiede commenti.
Nella situazione italiana non c’è bisogno di aver letto Lacan e Derrida (comunque non guasterebbe) per comprendere l’allusione al fallimento non solo di un governo e del suo premier, ma di un intero discorso della politica (e dell’economia). Il Cavaliere lo abbiamo appena rivisto in tv nel film “Silvio forever”, dove ammicca sulle sue doti amatorie e con aria complice ripete l’inconfutabile verità: “le belle donne costano”. E tutti gli italiani le desiderano. Assoluta coerenza, dunque, per ciò che emerge dalle ultime vagonate di intercettazioni variamente collegate al vasto giro di “escort” che gli procurava “Dimmi Giampi” Tarantini.
Berlusconi ha il grande merito di incarnare in una stupefacente commedia pubblica globale il declino dell’autorità maschile (altro caso eclatante, di cui non sappiamo ancora il finale, quello messo in scena da DSK). Un fatto, credo, sintomatico della nostra epoca (proprio nel senso che il discorso del fallo non è più centrale, egemonico) .
Ma questa vicenda personale, che trascina con sé una sempre più vasta corte di altri uomini (vedi le ultime performance linguistiche del ministro Sacconi, che chiaramente merita il posto assegnatogli dagli ignoti creativi di quella priapesca sagoma) non è l’unico aspetto di quello che potremo chiamare il sesso della manovra.
Che si sia a lungo parlato e litigato sull’aumento dell’età pensionabile delle donne, per poi cominciare a introdurlo anche per il settore privato, e che i tagli riguardino in grande misura, attraverso il ridimensionamento drastico della finanza locale, altri colpi mortali alla struttura del nostro “stato sociale”, non mi pare che abbia ricevuto la necessaria attenzione legata alla realtà delle vite concrete di donne e uomini.
Non lo hanno fatto gli uomini di governo (si fa per dire). Non hanno nemmeno tentato di attribuirsi un “disegno” (se non quello di difendere confusamente e irresponsabilmente consensi e privilegi), commissariati come sono dall’Europa, da Draghi e dal presidente Napolitano. Ma non lo hanno fatto, sostanzialmente, nemmeno coloro che si sono opposti. Non hanno saputo approfittare di questo drammatico momento di crisi per indicare davvero una alternativa, un modo di concepire l’economia e la politica a misura di un altro modo di concepire la vita.
Mi ha colpito, in particolare, il silenzio maschile dopo le tante parole e la molta retorica a ridosso della manifestazione femminile del 13 febbraio scorso. Anche da parte di chi si iscrive alle posizioni più critiche e radicali (ho in mente, in particolare, vari interventi sul “manifesto”). Un silenzio che è un po’ il contraltare della facondia godereccia del Cavaliere, all’interno del fallimento di quello stesso discorso, da cui siamo partiti.
Una eccezione lo scritto di Guido Viale pubblicato sul “manifesto” di giovedì 8 settembre, che critica l’idea “religiosa” di crescita quantitativa in un certo senso comune agli economisti di opposte vedute, liberisti e keynesiani, e propone un’altra idea di sapere, più vicina ai “sentimenti morali”, alla capacità di “mettersi nei panni dell’altro”, quindi anche di un uomo in quelli di una donna, e viceversa.
Qualcosa di più netto dice Luisa Muraro sull’ultimo numero di “Via Dogana”, ricordando la mobilitazione femminile, ma leggendo soprattutto un “nuovo ordine simbolico che vediamo spuntare in Italia nell’anno 2011”, nel quale “il primo posto sta andando alla qualità della vita. Si tratta ormai apertamente di contendere alla cultura del potere il valore delle nostre vite personali, la capacità di godere senza comsumare, e quella di giudicare sulle priorità”. Con l’avvertenza di non lasciarsi incastrare nella logica di una politica a base soprattutto di manifestazioni di piazza: una logica che, avendo contro poteri ancora strutturati sul piano della forza, può diventare perdente (come insegna la vicenda del G8 a Genova 10 anni fa).
Tanto più che cominciamo a essere testimoni non solo di scelte e intenzioni – come quelle che hanno vinto nei referendum e nelle elezioni amministrative – ma anche di pratiche, di iniziative e comportamenti che riescono a incidere nell’organizzazione delle vite e nei rapporti con il mercato della produzione, dei consumi, dei servizi. Ne parla con molti spunti di interesse Roberta Carlini nel suo recente libro “L’economia del noi”. E non credo dovuto al caso che sia una donna a insistere tanto, nella descrizione di queste esperienze (gruppi di acquisto solidale, credito etico, abitazioni in comune, contenuti sociali e responsabili di un diverso modo di “fare impresa”) sul concetto centrale di “capitale relazionale”, una cosa che ha un valore enorme ma che non è monetizzabile.
Segnalo altri due interventi femminili sui temi economici più drammaticamente urgenti: Cristina Tajani, assessora nella giunta Pisapia a Milano, intervistata sull’ultimo numero di Alfabeta2 a proposito di nuove politiche per il lavoro, e di Nancy Folbre sul sito InGenere a proposito della campagna “Curare l’America. Tassare Wall Street” (imposta sulle transazioni finanziarie), fatta propria con particolare convinzione dal sindacato delle infermiere americane.