Premessa:
Il testo che segue, seppure con leggere variazioni rispetto a miei riferimenti ad altri interventi che si rendono necessarie perchè in questa sede non si da conto dell’intero dibattito, è il risultato corretto di un mio intervento fatto nell’incontro del 16 aprile 2011, promosso dallUDI nazionale per discutere del “Ruolo dei partiti, sindacati, media e associazioni femminili nelle manifestazioni del 13 febbraio: “se non ora quando”, 8 marzo, 9 aprile: “il nostro tempo è adesso””.
Hanno introdotto il dibattito, presieduto da Patrizia Gabrielli, responsabile dell’Archivio Centrale UDI : Valentina Sonzini, redazione di “Fareilpunto”, Valeria Fedeli, FILCTEM CGIL e Associazione “Di nuovo”, Pina Nuzzo, delegata nazionale UDI, Liviana Zagagnoni, UDI di Ferrara, Teresa Di Martino, “Diversamente occupate”, Federica Giardini, Università Roma Tre, Rosanna Galli, UDI di Modena.
Tutto l’incontro è reperibile on line nel sito dell’UDI nazionale, ed è inscritto nel dibattito precongressuale dell’UDI stessa previsto per l’autunno prossimo.
Intervengo in particolare, sulle manifestazioni del 13 febbraio e del 9 aprile. Intanto con una precisazione: la manifestazione del 13, è stata convocata da due “appelli” separati, che poi si sono confusi quel giorno e si sono ritrovati confusi anche nel dibattito successivo. Uno è stato l’appello dell’Unità a firma di Concita de Gregorio, con dentro la distinzione e la messa in scena di queste donne “perbene” offese da quelle “permale”, che mascherava in realtà una ragione di politica antiberlusconiana, stimolare cioè e sfruttare l’indignazione femminile diffusa per dare a Berlusconi la tanto desiderata spallata. Ad esso si è innestata poi l’iniziativa del gruppo “Di Nuovo” con un documento specifico.
Questa confusione ha creato il verificarsi di un prima e un dopo il 13, molto diversi tra loro. La manifestazione comunque, ormai si chiama semplicemente “del 13”, perché, in qualche maniera, costituisce uno spartiacque tra il prima e il dopo. Il prima è stato utilissimo anche per il dibattito che si è sviluppato, tra quelle contrarie e quelle a favore, a cui io non ho voluto partecipare in prima persona perchè mi sentivo in contraddizione tra me e me. Tra un dare corpo – il mio corpo – a un’urgenza che pure sentivo dentro e che però, non ritrovava una corrispondenza precisa nelle parole degli appelli o delle chiamate a raccolta.
Inoltre, man mano che cresceva il dibattito pro o contro, tutti i timori che si andavano esprimendo io li percepivo sulle mie spalle, come se la mia biografia e la mia storia fossero portatrici di una qualche responsabilità rispetto ad essi, a cui però non riuscivo a dare parola senza sentirmi costretta ad attingere a certezze precostituite.
Il dopo manifestazione invece, ha fatto piazza pulita di molti di quei timori, che erano stati messi in luce prima, e nello stesso tempo ha portato in evidenza il fatto piuttosto indiscutibile ormai, che c’è un’urgenza per le donne di riprendere un filo, da qualunque pizzo venga ad offrirsi, per poter creare una situazione di “pubblica piazza” segnata senza nascondimenti da autorità femminile, dentro cui poi si aggiustino le cose.
E infatti il 13 le cose si sono poi aggiustate. Il 13 non è stata una rappresentazione pedissequa e plateale di quello che veniva prefigurato dagli appelli. Perciò il dopo richiede ora tutto un altro lavoro di interpretazione e tutta un’altra storia da narrare. Una storia cioè che riesca a mettere in parola politica quello che, nel dopo, è apparso evidente.
Già infatti, a quanto mi risulta, negli incontri misti tra i ragazzi e le ragazze che hanno indetto la manifestazione del 9 aprile, si è vista all’opera una sorta di disparità all’inverso, e cioè, i maschi si sono trovati in posizione seconda rispetto alle femmine. Ciò che ci viene incontro adesso è il bisogno di riuscire a fare politicamente piazza pulita della questione: “le donne solo tra loro o anche con gli uomini”. Perché il risultato vero che la manifestazione del 13 ha dato con successo è stato quello di mettere in scena una mobilitazione di popolo a egemonia femminile come peraltro ha anche già rilevato Luisa Muraro e che io ho riscontrato di persona essendo andata a curiosare mischiandomi tra le intervenute e gli intervenuti a piazza del Popolo.
Una mobilitazione di popolo a egemonia femminile, tale era infatti quella piazza, seppure a chiamata non proprio limpida, dato che, al suo interno, mostrava, purtroppo ancora intatte sul palco, tutte le ambiguità che avevano segnato gli appelli di convocazione.
La piazza invece era oltre, e mostrava che il cantiere di una fattiva egemonia femminile esiste già. E può, in tutta libertà, consentirsi il lusso di una mobilitazione di popolo, a cui, naturalmente , essendo di popolo, vengono anche gli uomini. I quali, per il fatto stesso che sono venuti, stanno riconoscendo una egemonia differente dalla loro.
Sono uomini che stanno lì in quanto uomini e niente altro, checchè ne dicano durante o poi. Lo stigma di quella piazza era vistosamente di segno femminile e non maschile come invece sono di solito tante altre piazze genericamente democratiche.
Insomma: quello che voglio dire è: così come innumerevoli manifestazioni, – che di solito chiamiamo di carattere generale, per es. quelle dei sindacati o dei partiti -, sono piene anche di donne, (e questo, nonostante sia spesso chiarissimo il fatto che, dietro la qualifica di generale si nasconda in realtà il segno maschile come segno dominante), altrettanto ora si renderanno possibili e ugualmente potenti, se non di più, manifestazioni all’inverso, dove cioè saranno le donne a segnare i passi decisivi.
Il 13 è stato per così dire, una sorta di “inizio”, di cui, non a caso, si sono accorti tutti gli osservatori mediatici. Ci hanno detto che c’è stato un popolo in piazza mosso da donne, ma non interdetto agli uomini, i quali sono accorsi numerosi, come numerose accorrono le donne alle manifestazioni cosiddette generali. Anche il 13 perciò può dirsi allo stesso modo, generale e non solo a specificità femminile.
Ma, contemporaneamente, ci ha pure detto che nessuna manifestazione più potrà dirsi indifferenziatamente generale, tutte saranno chiamate bene o male, a scoprire, in consapevolezza pubblica, il segno decisivo che le muove. Questo è stato, in un certo qual modo, un “miracolo”. E su di esso, nessuno può metterci il cappello, poiché, al momento, non c’è a disposizione, nessun cappello teoricamente adatto, neanche di natura femminile. Esso, il cappello, non ce l’hanno neppure quelle donne che la manifestazione l’hanno indetta. Neanche loro, checchè ne pensino, sono padrone del “miracolo” che ne è scaturito. Possono solo rallegrarsi per il fatto che è avvenuto. Mentre la responsabilità e, direi, anche l’assunzione di nuova responsabilità, l’abbiamo veramente tutte. Era un popolo. E i popoli non sono di nessuno.
Di questi tempi c’è chi, nella sinistra, cerca di porsi una domanda sul popolo. Mario Tronti per es., ha dichiarato che la sinistra ha bisogno della rifondazione di un popolo. Ora io penso che persone come lui, soffrano di una particolare forma di cecità epistemologica nel momento in cui non si accorgono che un popolo c’è già. Non si tratta di rifondarlo, si tratta di risignificarlo e di rendere coincidenti, ancora una volta se possibile (e questo significa lavoro politico, teorico e simbolico), le ambizioni, le aspettative, le domande, le urgenze di una dimensione “collettiva” nuova. Con le parole ma soprattutto con il cuore e con le ambizioni di chi ambisce a stare “sul palco”, qualunque sia il palco che si sceglie. Perché le ambizioni di chi sta sui palchi ormai non coincidono più con questo popolo nuovo che c’è già.
Ora, con la novità che si è resa visibile il 13, la separazione tra “anche con gli uomini” o “solo di donne”, decade. Questo si è reso più chiaro già il 9 aprile. In qualche modo, se continuiamo a discutere di questo, arretriamo rispetto alla realtà. Noi siamo ormai questa cosa nuova. Essa è fatta, da un lato di tutto il lavoro prodotto dalle donne per realizzarla, (nel quale, noi che, materialmente, politicamente e simbolicamente l’abbiamo fatto, dobbiamo riconoscerci senza smentirlo), dall’altro è fatta anche del conseguente e devastante crollo del simbolico maschile.
La libertà femminile, è acclarato ormai, riguarda anche i maschi. Li riguarda per forza. Anche se loro hanno tentato in un primo momento di dire che è roba solo di donne. E allora: se è vero che il venire al mondo della nostra libertà ha riguardato gli uomini, nonostante la loro resistenza ad accettarlo, adesso l’inconsistenza di ciò che fonda il simbolico maschile riguarda anche noi.
Quando poi, questo non consistere prende una forma iconica così scadente da ridurre il Fallo – che, si badi bene, non è un simbolo del patriarcato, ma del maschile e della sua potenza – a un membro quale è Berlusconi, malato di cancro alla prostata, tutto rifatto e tutto tinto, beh, allora, la faccenda si fa davvero urgente e seria.
Questa icona ci riguarda eccome!
Chiama in causa nientemeno che la riproduzione della specie. Le donne davvero libere non desiderano un fallo finto, desiderano piuttosto un fallo liberato dall’ansia e dalla volontà di dominio. E sanno, anche sulla loro pelle, quanto invece, uno finto sia dominato e corrotto proprio dalla più che sciagurata volontà di dominio, la quale può raggiungere livelli di vera e propria psicosi maschile. Una malattia ,cioè, simbolica; e non solo, tra le più temibili.
Purtroppo invece, tutto l’insistere che si è fatto (da donne e da uomini) sulla dignità femminile che era da essere difesa, è stato un arretrare rispetto alla vera questione. Anche se, ad essere precisi, un po’ ci si è avvicinati quando si è posto, seppure timidamente da qualche voce isolata, l’accento sul fatto che, di questi tempi, magari era piuttosto la dignità maschile ad essere bisognosa di difesa. Ma questi richiami non hanno avuto un’eco significativa più di tanto ed è stato un peccato.
Nelle difficoltà quotidiane, al contrario, quando abbiamo a che fare con i nostri maschi, troppo spesso noi donne mettiamo in atto, quasi senza accorgercene, un’ansia tutta femminile del soccorso. Il sesso femminile infatti va in soccorso quando il crollo sembra irreparabile. Non ne può quasi fare a meno. E forse neanche dovrebbe a ben pensarci, perché ha bisogno, oltre che del proprio, anche di un simbolico maschile che resti in piedi, per poterci fare i conti nella reciproca libertà.
Noi non siamo un mondo a parte. Questa faccenda è aperta ed è, a tutt’oggi, sempre nuova. Di fatto essa trasforma di continuo anche il modo di stare nella politica della donne. Ciò non toglie però che bisogna rimanere costantemente vigili nel giudicarci e nel giudicare. Per es. quando usiamo, anche non a sproposito, parole come veline, puttane, mignotte….ecc. non dobbiamo dimenticare mai che questo è un lessico maschile.
Non a caso infatti, la gran quantità di riflessioni e libri che proliferano oggi nelle librerie, sul cosiddetto strapotere della “mignottocrazia”, sono a firma di uomini. E questo la dice lunga su come, ancora una volta, non ce la fanno proprio a vincere la loro ormai atavica pigrizia intellettuale e a desistere una buona volta, dallo scaricare sempre su figure femminili tradizionalmente “di scarto” l’incapacità di rendersi consapevoli di un loro specifico problema.