Merci / Desideri

produrre e consumare tra pubblico e privato

La cura: destino, necessità, scelta?

17 Maggio 2011
di Lea Melandri

La cura è una necessità degli esseri umani, sia come risposta a bisogni essenziali quando non si è in condizione di autosufficienza –il bambino, l’anziano, il malato-, sia come attenzione, affetto, riconoscimento da parte dei propri simili, di cui ogni individuo ha bisogno per vivere. “Non si vive di solo pane”. Si può morire di dolore, di solitudine, di indifferenza. Che cosa ha impedito allora di essere riconosciuta come tale e affrontata con l’impegno collettivo che merita?
Si può parlare di scelta quando interviene la consapevolezza di ciò che si presenta a noi come necessario e se ne assume la responsabilità, quando da un meccanico, obbligato “prestare cura” si passa al “prendersi cura”, “interessarsi a”, dove l’azione materiale che l’altro ci richiede viene fatta propria in tutte le sue contraddittorie implicazioni: fatica, disgusto e piacere, esaurimento e recupero di energie, ritualità e sorpresa, dovere morale e libertà. E’ una condizione a cui si approda raramente, perché presuppone una buona conoscenza di sé e un processo formativo che aiuti a prendere distanza da abitudini, comportamenti inveterati, habitus mentali e convinzioni preconcette.
Ora, la prima e la più duratura delle pregiudiziali che hanno impedito finora di vedere la cura come necessità, responsabilità collettiva e scelta, è il fatto che nella storia che conosciamo e che è arrivata fino a noi la cura è diventata il destino ‘naturale’ della donna, considerata come genere e non come individuo. E’ dalla capacità biologica di fare figli, dalla maternità, che vengono fatte discendere, deterministicamente, le doti tradizionali femminili: riproduzione della vita, dedizione all’altro, capacità di ascolto e di mediazione dei conflitti, responsabilità della casa e della famiglia.
Nel Disagio della civiltà, Freud indica come fondamenti della vita in comune la “coercizione al lavoro” e la “potenza dell’amore”, riconoscendo in questo binomio anche la differenziazione tra i ruoli del maschio e della femmina, e il rapporto di
potere di un sesso sull’altro. In realtà, una separazione netta tra amore e lavoro non c’è mai stata.
Oggi si può dire che, saltati i confini tra privato e pubblico, tra il corpo e la polis, le due sfere si vanno confondendo: da un lato, la cura e il lavoro domestico diventano in parte lavoro salariato, dall’altro le trasformazioni del lavoro produttivo, sempre più immateriale, cominciano a considerare le “doti femminili” una “risorsa”. Il lavoro di cura entra oggi visibilmente nell’economia, ma i legami ci sono sempre stati. La cura dei figli, della famiglia, della casa sono da sempre, come dice Antonella Picchio, “un grande aggregato dell’economia generale”.
La ragione principale dell’occultamento che impedisce tuttora di affrontare alla radice la divisione sessuale del lavoro, e di vedere le conseguenze che ha sulla relazione tra uomini e donne, va ricercata nel fatto che la conservazione della specie si è venuta a confondere con la maternità e con l’amore – amore per un figlio, per un uomo, per una persona particolarmente cara-, e con l’intreccio tra amore e dominio. Le cure che le donne elargiscono all’interno della famiglia come madri, mogli, sorelle, nuore, a bambini, malati, anziani, ma anche uomini in perfetta salute, sono al centro di un paradosso, di una contraddizione che oggi arriva, sia pure lentamente, alla coscienza, ma di cui troviamo tracce inequivocabili nel passato.
Per J.J. Rousseau, la maternità, insieme alla seduzione erotica, è una delle “attrattive” che rendono la donna potente agli occhi dell’uomo, il quale dipende da lei per la nascita, le prime cure e le prime sollecitazioni sessuali, l’educazione. Ma è anche, proprio per questo, la ragione della sua esclusione dal “contratto sociale”.
Nel capovolgimento, che vede il più debole diventare il più forte, alla donna viene chiesto di vivere “in funzione degli uomini. Piacere e rendersi utili a loro, farsene amare e onorare, allevarli da piccoli, averne cura da grandi, consigliarli, consolarli, rendere loro la vita piacevole e dolce”.
Di quanto le donne abbiano a loro volta confuso la forza con la debolezza, l’amore per l’altro con la cancellazione di sé, la cura materna di un figlio con la dedizione amorosa a un marito, un amante, sono testimonianza alcuni frammenti di “lucida intuizione” di Sibilla Aleramo. “Impulsi intimi di dedizione, compiacimento nel donarsi e nel far felice l’essere amato anche senza gioia propria. 1908”. “Ero schiava della mia forza, della mia creatrice immaginazione ormai…il mio potere era questo, far trovare buona la vita. La mia forza era di conservare tale potere, anche se dal mio canto perdessi ogni miraggio. Amore senza perché, senza soggetto quasi”.
Questo “sacrificio di sé” nella cura dell’altro è quello che la cultura maschile ha ritenuto essere la “naturale” estensione della maternità e del rapporto madre-figlio a ogni rapporto adulto: madre comunque e sempre, anche se vergine (Mantegazza, Michelet). Il rimprovero che Emilio Cecchi fa all’Aleramo è, in questo senso, illuminante: “Nessuna virtù materna, o dono incondizionato, che la faccia rivivere nell’altro, negandola. Non ha bisogno che di sé”.
Vale la pena di soffermarsi su questo aspetto della cura, perché, al di là dell’ “atto sacrilego” che è la rinuncia alla propria individualità, la dipendenza materiale a cui tiene vincolato l’uomo-figlio pesa drammaticamente anche sul desiderio di ogni individuo di rendersi autonomo rispetto al corpo che l’ha generato e da cui ha ricevuto le cure necessarie nell’infanzia.
Nel momento in cui non è riconosciuta alla donna un’individualità propria, il bisogno legittimo di curarsi di sé, di potersi esprimere attraverso una molteplicità di manifestazioni di vita, la figura che il figlio si lascia alle spalle crescendo resta quella della madre che lo richiama all’antico legame fusionale, che sembra volerlo perennemente bambino, bambina lei stessa che non ha mai smesso di giocare con le bambole.
L’arresto nel processo di individuazione della donna fa scendere inevitabilmente un’ombra minacciosa anche sull’individuazione e sull’autonomia dell’uomo-figlio.
La fissità nel ruolo di madre innalza la donna immaginariamente come minaccia di dipendenza perenne agli occhi del figlio diventato uomo. Per liberarsi di quell’ombra che dall’infanzia si prolunga sulla sua vita adulta, sembra che l’unica soluzione sia l’assorbimento in sé della madre: negarla come esistenza fuori di lui, perché possa vivere solo attraverso la sua vita, la sua riuscita nel mondo.
“La mamma è l’unica persona – scrive Michelstaedter nell’ultima lettera alla madre- che può voler bene così, senza mai aver bisogno di affermare la sua individualità e senza che questo le sia un sacrificio”.
Per celebrare la sua autonomia nella sfera pubblica, la comunità storica degli uomini ha avuto bisogno di cancellare i suoi vincoli biologici -la nascita dal corpo femminile ma anche tutto ciò che è inscritto nell’essere corpo (fragilità, dipendenza, mortalità). Per esaltare le potenzialità del pensiero si è accanita sulla natura fino ad alterarne, forse irrimediabilmente, gli equilibri. La svalutazione del corpo, dei bisogni e delle vicende che lo attraversano -la sessualità, l’invecchiamento, la malattia, ecc.- ricade, di conseguenza, sulle cure necessarie per tenerlo in vita, e sul sesso femminile che ne è stato considerato depositario per natura.
Confinata nel privato e lasciata alla responsabilità della donna, la cura ha finito per fare tutt’uno col lavoro domestico, la mole di attività richieste dalla quotidianità di una casa, di una famiglia, ed è andata a confondersi con i legami affettivi, sessuali, amorosi, più intimi. Di qui la gratuità e l’ invisibilità , che hanno impedito finora di vederla come risposta necessaria ai bisogni essenziali dell’umano, una responsabilità che non riguarda la morale femminile ma l’”etica pubblica” (Joan Tronto).
Il problema della cura, nel suo aspetto duplice di amore e lavoro, nella sua ambiguità di azione indispensabile alla conservazione della vita, che il più “debole”, almeno all’apparenza, elargisce al più “forte”, non è stata analizzata a fondo neppure dal movimento delle donne, come dimostra il fatto che ricompare lungo tutta la storia dell’emancipazionismo del ‘900 e di quella che è oggi la “femminilizzazione” dello spazio pubblico.
Unica eccezione resta il femminismo degli anni ’70 , che aveva individuato proprio nel corpo –sessualità, maternità- l’espropriazione di esistenza che le donne hanno subito, e nella riappropriazione di una individualità intera l’uscita dal destino di mogli e di madri.
Le battaglie delle donne del secolo scorso hanno ricalcato quasi sempre il binomio “uguaglianza-differenza”: omologazione al modello maschile o valorizzazione delle “doti femminili”, le “virtù domestiche” da impegnare, come diceva Maria Montessori, nella vita sociale, per opere di assistenza e prevenzione.
Oggi, pur restando ancora predominante nei servizi alla persona, la presenza femminile ha guadagnato terreno: a richiedere “competenze” femminili è il sistema produttivo stesso, la nuova economia incentrata sul lavoro cognitivo. Alla “differenza femminile” si aprono territori inaspettati, ma ancora una volta fa la sua comparsa come risorsa, merce preziosa, “valore aggiunto” , complemento di un intero che non cambia volto e che anzi potenzia, nel ricongiungimento, le sue capacità.

“Oggi è dato per scontato che una donna lavori, si occupi della casa, della famiglia. Non c’è scambio di ruoli tra uomo e donna in casa. Serve una nuova educazione maschile. Schiave di noi stesse, delle nostre ambizioni, delle nostre personali gabbie. Ci siamo scelte un doppio fardello?” (Blog di Daniela Monti, www.corriere.it).
Il tema della “conciliazione”, o del “bilanciamento” tra vita e lavoro, come l’ha definito L’Avvenire (9.3.11), si è venuto a trovare non a caso al centro dell’interesse. Ne parlano voci femminili che si esprimono da giorni su blog e siti Internet, raccontando gli equilibrismi a cui è costretta la donna moglie, madre e lavoratrice; ne discutono, nella prospettiva di un migliore rendimento delle imprese, economisti, sociologi, sindacalisti, responsabili del lavoro e delle politiche sociali.
E’ chiaro che, se anche si andasse affermando una leadership femminile che dà la priorità a battaglie di emancipazione -più donne nelle istituzioni della politica, dell’economia, della comunicazione, parità di salario e opportunità di carriera- non si potrà più prescindere dall’analisi delle contraddizioni e dell’ambiguità in cui è stata lasciata finora la cittadinanza tardivamente concessa alle donne, o la loro integrazione in una società di tradizione decisionale maschile.
La logica della parità, intesa come omologazione a modelli dati, si direbbe che oggi è quella che più risente della rivoluzione femminista: non si parla più di “questione femminile” -svantaggio della donna da colmare- ma del rapporto di potere tra i sessi, di una cultura e di un immaginario maschile da mettere in discussione. Che sia stata la civiltà dell’uomo, sotto ogni latitudine, a definire la femminilità, e la violenza del suo dominio a mantenerla subordinata al proprio interesse, è un’evidenza che si è fatta strada insieme alla libertà delle donne di poter decidere della propria vita.
Molto più difficile prendere atto che se si vuole affrontare davvero il rapporto uomo-donna, togliere dalle spalle femminili il peso di un doppio fardello, a essere terremotata è la concezione storica sia del privato che del pubblico: è la qualità e l’organizzazione del lavoro, nata sulla messa al bando delle funzioni necessarie alla conservazione della vita, e quindi con un’idea del tempo indifferente ai mutamenti biologici del corpo; ma è anche la concezione dell’amore, della sessualità, della coppia e dell’assistenza.
Su questo tema essenziale, sul modo di uscire dalla subalternità a cui si condannerebbe una battaglia fatta solo di rivendicazioni, richiesta di leggi e diritti, il dibattito in corso è carente: si è cominciato a portare allo scoperto il potenziale di violenza che si annida nei legami famigliari, ma non si è detto ancora abbastanza sull’attaccamento delle donne ai ruoli che più le hanno penalizzate, come sacrificio di sé, negazione della propria individualità.
E’ andata affermandosi la necessità di un’analisi del sessismo, di una campagna che affronti dal punto di vista educativo il perpetuarsi degli stereotipi di genere, ma non si è indagato a fondo il peso che possono aver avuto le logiche dominanti del mercato e del consumo nel favorire, nelle donne stesse, la scelta di mettere a profitto il proprio corpo.
E’ pensabile oggi un mutamento del rapporto tra i sessi che prescinda dalla prospettiva di un’altra forma di sviluppo e di società?
Quanto siamo disposte a lasciare che i bisogni, i disagi, le frustrazioni, le fatiche fisiche e psichiche, legati alla doppia presenza delle donne, fuori e dentro casa, vengano affidati alla “buone prassi” e alla “responsabilità sociale” delle imprese –che vuol dire: part-time, flessibilità di luoghi, orari, ferie, asili aziendali, telelavoro, ecc., permessi per motivi famigliari, ecc.?
Si può considerare un approccio person friendly, “amico della persona”, e non work friendly, “amico del lavoro”, quello che L’Avvenire descrive come soluzione ideale: “migliorare il clima organizzativo dell’ente, la maggiore soddisfazione del lavorare, il senso di appartenenza all’organizzazione, il migliore rendimento in termini di produttività, la riduzione dell’assenteismo, il miglioramento dei rapporti famigliari”?
C’è solo una notazione, da cui si deduce che il 13 febbraio non è passato invano. Scrive Giovanna Bottani, la coordinatrice della ricerca sulla “conciliazione vita-lavoro”: “il termine conciliazione ormai rimanda al rapporto donne-lavoro, invece stiamo parlando di un tema che riguarda anche gli uomini”. Ma poi aggiunge: “L’obiettivo è il benessere del lavoratore, senza distinzioni di genere”, e, come si sa, “il benessere del lavoratore favorisce migliori performance lavorative”. La “buona vita”, il miglioramento del rapporto tra i sessi, restano ancora un mezzo e non un fine in se stessi.

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