1. Il lavoro è questione centrale per le donne oggi. Il lavoro che non c’è, il lavoro precario, il lavoro stabile che inghiotte con le sue esigenze il tessuto della vita quotidiana. In passato era tutto chiaro. Il lavoro per le donne era un obiettivo, una conquista, era la strada maestra per l’emancipazione.
Anche il femminismo degli anni Settanta, con l’accento su liberazione e libertà non ha mai messo in dubbio il lavoro come fondamento dell’autonomia delle donne, il guadagnarsi la vita per sottrarsi all’autorità maschile. Lottare per il lavoro era una battaglia politica e culturale, si lottava per cambiare il proprio destino rinchiuso all’interno della famiglia. E oggi? Che le donne lavorino è per loro un successo o una delusione? E di quale lavoro si parla?
Fotografare la realtà del lavoro femminile è fare emergere una pluralità di voci e di esperienze. Cosa c’è in comune tra una giovane donna intorno ai trent’anni che si sente condannata alla precarietà a vita e un’ultracinquantenne, vicina ai sessanta, all’inseguimento di una pensione che viene spostata sempre più in là? La diversità di età e di vita deve per forza sfociare in un conflitto? Ha senso che la generazione che ha aperto la strada del lavoro per tutte, come è successo per la prima volta in massa a chi è nata tra il 1948 e il 1953 (ricavo i dati da Le ragazze di cinquant’anni di Marina Piazza), debba essere presa di mira dalle ragazze che, cresciute come sono con l’idea che per loro il lavoro sarebbe stato un cammino senza ostacoli, si sentono defraudate del loro futuro?
2. Prima di tutto i dati, fonte Istat, riferiti al 2009 (http://noi-italia.istat.it), con una notazione a margine. Fa parte del cambiamento e delle battaglie per ottenerlo che le statistiche di genere oggi siano disponibili nei dati mainstream, fa parte di un onesto lavoro intellettuale partire dalla considerazione dei dati. Oggi la donna italiana media (che coincide con il cittadino medio, le donne sono leggermente di più degli uomini) ha poco più 43 anni e una aspettativa di vita di 84 anni (79 gli uomini) – una conferma dell’età elevata della popolazione italiana.
Molti importanti i dati sull’istruzione, che riservano qualche sorpresa. Si sa che le donne studiano di più e si laureano di più degli uomini. Ma non bisogna dimenticare che la donna italiana, se è tra i 25 e i 64 anni, ha solo il diploma di scuola dell’obbligo al 44,9 per cento (46,5% gli uomini). Tutto cambia nella popolazione più giovane, dove sale il livello di istruzione, anche se molto inferiore a quello europeo.
Colpisce il numero di giovani che abbandonano gli studi senza conseguire il titolo di scuola media superiore, il 19,2 per cento. Le ragazze sono di meno, intorno al 16 per cento (i ragazzi sono il più del 22 per cento) ma comunque sempre in numero superiore alla media europea di abbandono, che è del 14, 4 per cento. Fa riflettere anche il numero dei giovani fuori da qualunque circuito, che non studiano e non lavorano. Nel 2009, in Italia poco più di due milioni di giovani (il 21,2 per cento della popolazione tra i 15 ed i 29 anni). Le donne sono di più, il 24,4 per cento rispetto al 18,2 per cento degli uomini. In leggera flessione nel biennio 2004-2006 e sostanzialmente costante nel biennio successivo, questi giovani tornano a crescere nel 2009 quando si manifesta la crisi.
Guardiamo ora i dati del cambiamento sociale diffuso. L’età media del matrimonio per le donne italiane è trent’anni, hanno 1,4 figli ciascuna e il primo figlio a trent’anni. Sono le cifre che danno più di ogni altra l’idea del mutamento che ha segnato la vita femminile: ancora un buon terzo delle donne ora intorno ai sessant’anni si sono sposate e hanno avuto figli già a ventidue anni, in ogni caso in media le donne oggi quando si sposano hanno quattro anni di più che nel 1960.
E ora guardiamo le cifre sul lavoro. Prima di tutto un dato che di solito viene poco considerato, e su cui l’Istat ha richiamato l’attenzione, il tasso di inattività, cioè il numero che misura la quantità di persone che non cercano lavoro nella fascia di età tra i 15 e i 64 anni, rispetto all’insieme della popolazione della stessa età. Il tasso di inattività femminile in Italia è particolarmente elevato: il 48,9 per cento. Un tasso anomalo, un accentuato differenziale di genere, pur in un contesto europeo dove l’inattività maschile è dovunque inferiore a quella femminile. Passiamo al lavoro: le donne occupate sono il 46, 4 per cento (a fronte del 68,6 per cento degli uomini), uno dei tassi più bassi d’Europa, anche se naturalmente al nord la situazione è molto simile all’Europa (tra il 61,5 di donne occupate in Emilia-Romagma e il 56,1 in Lombardia).
La disoccupazione femminile è salita di meno di un punto, al 9,3 per cento, più alta di quella maschile ma in sintonia con l’aumento complessivo nella crisi. Dati più recenti e provvisori, relativi al dicembre 2010, prospettano in ogni caso una realtà mobile. Le donne disoccupate diminuiscono del 2,7 per cento rispetto a novembre e dell’1,7 per cento rispetto a dicembre 2009, così il tasso di disoccupazione femminile è pari al 9,6 per cento, in diminuzione di 0,3 punti percentuali sia rispetto al mese precedente e sia su base annua.
La terribile disoccupazione giovanile, nel dicembre 2010, in Italia risulta pari al 29 per cento, (si tratta di dati provvisori, non disaggregati per sesso). Per quanto riguarda il riepilogo del 2009, il tasso di disoccupazione delle ragazze è del 28,7, ben cinque punti percentuali in più dei ragazzi.
In Europa sono solo otto i paesi in cui le giovani donne sono più disoccupate dei loro coetanei. Un ultimo dato, che riguarda i dipendenti a tempo determinato, la principale forma di lavoro atipico. Nel 2009 il 12,5 per cento dei dipendenti (2,2 milioni di persone) ha un contratto a termine, sono più donne che uomini (14,6 rispetto al 10,8 per cento), soprattutto giovani nei servizi. La crisi colpisce il lavoro a termine (-171.000 persone) che assorbe quasi la metà della complessiva caduta occupazionale del 2009. La diminuzione di un punto percentuale colpisce in eguale misura donne e uomini.
3. Di questa cornice di riferimento, che dovrebbe orientare riflessioni e scelte politiche, colpisce per esempio la bassa istruzione della popolazione italiana, a sorpresa anche tra i giovani. Ma sono due gli elementi per me essenziali. In primo luogo il cambiamento tumultuoso che le donne, tutte le donne italiane, hanno portato nella vita quotidiana, e che i dati mostrano con evidenza cristallina.
Penso all’innalzamento di età per il matrimonio e la procreazione, oltre che la riduzione del numero dei figli e l’ingresso nel mercato del lavoro. Avvenimenti essenziali e semplici della vita che ora hanno una dimensione di massa, non sono più la sfida di una minoranza di esploratrici. Ebbene, per questo enorme cambiamento non c’è riflessione e rappresentazione adeguata nella cultura, nella politica, nei media, nelle misure sociali. Non si pensa mai che l’Italia è un paese bloccato perché non ha trovato la strada per accogliere e dare una condivisa forma sociale e simbolica al cambiamento femminile.
L’altro elemento è la consistenza e il dramma della disoccupazione giovanile, in speciale modo di quella femminile. I dati confermano che precarietà e disoccupazione sono soprattutto delle donne. Di qui ansia e conflitti, sociali ma anche generazionali, che li accompagnano. Non c’è da stupirsi che nelle ragazze le maggiori preoccupazioni, oltre che su carriere inimmaginabili e retribuzioni sempre da contrattare e sempre troppo al limite, si concentrino sulla possibilità di vivere una vita che da una parte non sia solo lavoro, dall’altra permetta di scegliere di essere madre senza pensare di diventare una reclusa della casa.
È come se la presenza di tante donne nei luoghi di lavoro, tutti costruiti intorno agli uomini e ai loro stili di vita, portasse un maggior numero di persone, perlopiù donne ma non solo, a prendere coscienza di essere prigionieri di ingranaggi impersonali e faticosi, troppo per qualunque ambizione.
Manifesti politici, come Immagina che il lavoro della Libreria delle donne di Milano (vedi Giovanna Pezzuoli nell’ultimo numero di Leggendaria, pagg. XXX), il testo L’emancipazione malata, a cura della Libera università delle donne di Milano, il documento per la Dichiarazione dei lavori delle donne, proposto da un gruppo tra cui Marisa Nicchi, Elettra Deiana e Maria Luisa Boccia (http://dichiarazionelavoridelledonne.myblog.it), libri come Per amore o per forza, di Cristina Morini, per vie diverse – e non necessariamente in conflitto tra loro – propongono una nuova soggettività femminile che vada oltre la logica del lavoro come conquista identitaria.
In fondo si tratta di fare i conti con il successo: il lavoro oggi non è un luogo simbolico da conquistare, piuttosto un territorio da gestire e rendere più simile a se stesse. Un luogo da considerare con cautela per non scoprire che, invece che conquistare il lavoro, è l’economia – il capitale – ad avere messo al lavoro la vita femminile, sottomettendone l’eccedenza che non rientrava nella logica economica. È qui la sfida di oggi, assumere la capacità di relazione e di cura, ovvero la peculiare qualità del lavoro femminile, come misura di tutto, senza vendere tutto al mercato. Una sfida che va ben oltre la inevitabile rivendicazione di posti per sé. Fa parte dell’assunzione di responsabilità delle donne verso se stesse e il mondo.
4. Senza volere e potere concludere in nessun modo, riporto qui alcune righe da Il lavoro di una donna, il libro di Carla Casalini. Chi ha conosciuto Carla, che ci ha lasciato troppo presto nel novembre 2009, sa che sul suo giornale, il manifesto, ha documentato sin dagli anni Settanta con scrupolo e passione le vicende del lavoro, in particolare quello delle donne: Alessandra Mecozzi, che ha curato con amore questa raccolta di articoli scrive: «Il lavoro è stato centrale nella troppo breve vita di Carla: come espressione di sé e come oggetto di indagine e analisi».
Nel luglio 1979, inviata al seminario delle delegate Flm a Napoli, Carla scrive: «Perché dunque una donna va al lavoro, quali sono le sue ragioni profonde? In molte rispondono «per non essere come mia madre», «per non finire come lei». Ma come è finita lei? Annegando tutto nel ruolo affettivo, «e quando una donna si pone sul piano affettivo si accorge che il risultato non torna mai, che lei da sempre molto di più di quello che riceve. Io perciò sono fuggita dal fantasma di mia madre e quando ho cominciato a lavorare non volevo avere nessun tipo di rapporto con i colleghi, e volevo un lavoro asettico. L’affettività doveva restarne fuori, perché io lì sapevo che i conti non tornavano mai».
E oggi tornano i conti?