Le guerre moderne sono asimmetriche, sostiene Saskia Sassen, che è sociologa dell’Istituto Robert Lynd e co-presidente del Committee on Global Though della Columbia University,e collabora regolarmente con siti prestigiosi come OpenDemocracy.net e HuffingtonPost.com. Le differenti forze delle parti in gioco in una guerra asimmetrica, dice Sassen, portano oggi a risultati imprevisti e imprevedibili, rivelatori di equilibri inediti, dove la vittoria, quando c’è, non sempre è del più forte.
Lei ha scritto in un recente saggio, pubblicato nel suo sito saskiasassen.com, che le città sono fondamentali nelle guerre moderne, fino a diventare loro stesse una tecnologia di guerra. Cosa significa?
Le città sono la zona di frontiera per tutte le sfide della globalizzazione: ambiente, razzismo, inasprimento delle disuguaglianze. Ora si aggiunge la guerra. Perché quando una potenza militare di tipo convenzionale, come gli Stati uniti o i Paesi della Nato, va in guerra, non si muove contro una forza altrettanto convenzionale, si trova invece contro combattenti irregolari. Buoni o cattivi che siano, non importa, il punto è che non sono un esercito convenzionale, non hanno carri armati né aeroplani. Sono gli irregolari a trovare nelle città lo spazio adatto per confliggere con l’esercito convenzionale. Infatti la guerra dentro le città terrorizza Nato e Usa, le città non sono più la zona del relax del soldato. Diventa un corpo a corpo. Non c’è più niente in mezzo, niente carri armati e neppure piani di volo. In questo senso la guerra asimmetrica – la guerra tra un esercito e forze irregolari – ha fatto della città un territorio nella mappa della guerra contemporanea. Inoltre le città che non sono ancora parte del teatro di guerra secondo le definizioni della guerra militare convenzionale, possono diventarlo. Basta vedere cosa è successo con le bombe a Londra, Madrid, Bali dopo l’inizio della guerra in Irak.
Si tratta di una conseguenza della globalizzazione?
Sì e no. Uno degli aspetti chiave, anche se non molto visibile, della globalizzazione è lo sfaldarsi a poco a poco dell’unità dello stato moderno, che nella sostanza è uno specifico modello di organizzazione che tiene insieme territorio, autorità e diritti. Un modello che la globalizzazione cambia, perché il globale si trova proprio all’interno della nazionalità. E la guerra asimmetrica si installa in questa tendenza, per cui la globalizzazione non è la causa, ma la rende possibile. In un certo senso i combattenti irregolari fanno parte della nostra modernità globale. Gli eserciti convenzionali no. Ce ne accorgiamo tutte le volte che i Ministri della difesa delle nostre democrazie liberali dicono: ci servono truppe e veicoli, carri armati leggeri. Pirati somali, società multinazionali, paradisi fiscali, insieme alle guerre asimmetriche, tutto fa parte della nostra modernità globale.
Per l’asimmetria delle guerre moderne cosa è importante oltre la globalizzazione? Novità nelle tecnologie e nelle strategie? O che altro?
Sì, c’è una svolta nelle tecnologie, negli obiettivi della guerra, nelle strategie di combattimento. Penso che ora è più chiaro che siamo all’inizio di una nuova era, cominciata negli anni Ottanta. C’è una grande confusione, non c’è più un centro che tiene tutto insieme. Trovo anche molto importante che la guerra asimmetrica, e l’urbanizzazione della guerra che produce, rendano visibili i limiti della superiorità delle potenze militari. Quando la scena della guerra è nelle città, l’esercito convenzionale è soggetto a ogni tipo di costrizioni. Gli Usa hanno bombardato l’Irak per sei settimane, ma sul territorio del Paese, non sulle città, così è cominciata quell’altra guerra. L’urbanizzazione della guerra rende complesse le forze di minore potenza. Perché i combattenti irregolari male armati non necessariamente vincono ma la loro debolezza è complessa perchè ostruisce la potenza militare con più forza in campo, e può perfino distruggerla. In conclusione non si può certo dire che gli Usa hanno vinto in Irak o in Afghanistan. Nella guerra asimmetrica non è possibile l’armistizio. Se le grandi potenze combattono l’una contro l’altra come nella prima e nella seconda guerra mondiale, hanno anche il potere di dire a un certo punto, facciamo la pace. Questo sembra quasi impossibile in una guerra asimmetrica.
Di che tipo è la guerra in Libia? E una guerra moderna? E ribelli, fanno la differenza?
In realtà in Libia è all’opera un formato misto. I ribelli contro il governo riportano chiaramente a una guerra asimmetrica. Ma dal momento in cui l’aviazione della Nato è entrata in campo ci troviamo nel vecchio stile, da guerra del Ventesimo Secolo. Nello stesso tempo la Nato non sarebbe intervenuta se non ci fossero stati i ribelli nella scena. Si dovrebbe aggiungere che Gheddafi è davvero un leader insolito –si pensi all’enorme ingaggio di migliaia di mercenari trasportati su giagnteschi C-30. Quella non è neppure la guerra moderna. Temo che questo faccia proprio parte del nuovo paesaggio in cui ci troviamo. Anche gli Usa appaltano la guerra ai mercenari.
Cosa pensa della guerra umanitaria?
È un tema che mi interessa molto ma che non ho mai studiato. Non sono pronta a parlarne. Ma voglio dire che penso che, oltre il gioco diplomatico e lo stato delle relazioni internazionali fra gli Stati, dovremmo avere norme che proteggano la sicurezza degli umani.
Questo articolo è stato pubblicato sul Secolo XIX