“L’economia non sa contare”. Titolo pertinente a un pezzo di Federico Fubini (“Corriere della sera”) che commentava il “Panorama sulla società” dell’Ocse. In questo “panorama” l’Italia viene annoverata tra i paesi nei quali il tempo di lavoro non remunerato per le donne è più di cinque ore; per gli uomini di un’ora e tre quarti circa.
Eccoci alla doppia presenza femminile: a casa, a svolgere un lavoro gratuito; fuori (quando c’è), un lavoro retribuito. Il lavoro gratuito di per sé contribuisce alla ricchezza nazionale. Però non entra nelle analisi economiche.
Sono cinque ore “fantasma”, scrive Fubini. Indicative del lavoro domestico o di cura. In queste ore invisibili, io, voi, facciamo la spesa, cuciniamo, ci precipitiamo a comprare il detersivo che manca, aiutiamo il bambino a fare i compiti, telefoniamo alla suocera, organizziamo il trasloco, decidiamo il giorno della visita all’amica in ospedale.
Ma ci occupiamo della fragilità, della vulnerabilità di quanti ci sono cari. Maneggiamo la riproduzione dell’esistenza.
Volete definirlo cosa buona e giusta oppure autosfruttamento?
Dicono che finirà, che deve finire. Se ci fossero servizi sociali e asili-nido e un Marchionne capace di guardare ai bisogni delle operaie di Termoli Imerese la cosa andrebbe a posto.
Eppure, nell’altalena femminile tra lavoro e vita c’è qualcosa in più. Un “resto” che la socializzazione totale, i servizi organizzati, il personale a pagamento non bastano a cancellare. Come se le donne non volessero rinunciare alla fatica ma anche alla mediazione di qualcuno – lei – capace di integrare, di operare connessioni, di comporre tempi, spazi e esigenze individuali. D’altronde, un vecchio libro di Katherine Bateson aveva per titolo “Comporre una vita”. Composizione della vita, questo ci piace (?) fare.
Ecco lo sfondo su cui si muovono le badanti (e un numero molto più basso di badanti maschi). Svolgendo un bene sociale primario: riprodurre la vita, caricandosi della altrui dipendenza; cercando la propria indipendenza.
Proviamo a dire su un lavoro che non è solo quello salariato (peraltro ancora male oriented) e che semina tanti lasciti simbolici in uno scambio che ha la qualità del dono, dell’affetto, dello sdebitamento (il primo essendo quello tra madre e figlia poi tra figlia e madre), del senso di sé, bisogno di sicurezza, fiducia, amorevolezza. Anche se – e va riconosciuto – questa amorevolezza può scivolare nell’abuso di autorità, o nella logica di potere.
Dunque, un lavoro di riproduzione della vita giudicato marginale, residuale. La tradizione emancipazionista, i “compagni” immaginano che noi, le donne, partiamo svantaggiate. Meno lavoro, meno salario. Più precariato, più inoccupazione. Comunque, saremmo per via della cura, di questa palla al piede, più sfortunate di loro.
Ora, ci piacerebbe discutere – oggi che la differenza sessuale è in campo – se la cura, la manutenzione (termine che compare nel manifesto della Libreria delle donne di Milano “Immagina che il lavoro”), l’accudimento lo scegliamo o ci costringono a sceglierlo.
Bisogna rifletterci giacché con il femminismo – forse – si è operato un rovesciamento. Un arricchimento, un modo diverso di guardare a questo nostro fare. Già sta succedendo di rifletterci: nel “Gruppo del mercoledì”; nell’incontro di Milano su “Vite al lavoro” (organizzato dall’Ars e da donne che hanno prodotto testi sul cambiamento del lavoro grazie alla presenza femminile); da altre parti. Nel cambiamento del lavoro c’è questo aspetto che che tiene insieme sessi e generazioni, anziani e giovani, forti e vulnerabili, girando intorno alle relazioni.
Forse è l’appartenenza alla “vecchia guardia femminista” (definizione non benevola di Silvia Ballestra), oppure il possedere un corpo di donna a renderci attente alle relazioni?
Certo, il sesso maschile sembra meno interessato e “fino a quando gli uomini adulti non collegheranno in modo più sano tempi di vita e di lavoro, desideri e realtà, potere e libertà, beni e relazioni, partendo dai loro corpi, insicurezze, emozioni, non c’è speranza di arrivare a una buona vita liberata dalle devastazioni del lavoro salariato, delle relazioni personali viziate dai rapporti di potere…” (Antonella Picchio su “Gli altri”).
Secondo me il disinteresse si verifica perché gli uomini non sanno accettare il nostro (e il loro) essere dipendenti. Da chi ci mette al mondo, ci cresce, ci accudisce, ci ascolta, ci sottrae alla solitudine:insomma dalla indispensabilità delle relazioni. Nelle organizzazioni politiche è impossibile riconoscere la dipendenza. Funziona piuttosto una finta parità. Tutti e tutte sullo stesso piano, però con l’affidamento al capo.
In realtà, le relazioni sono sempre sghembe, asimmetriche.
Devo a Lucetta Scaraffia la segnalazione della filosofa cattolica Eva Feder Kittay e del suo libro “La cura dell’amore. Donne eguaglianza dipendenza” (Vita e pensiero) dove c’è la descrizione di un mondo come rete di relazioni che conservano scintille di umanità.
Se questo fosse vero, sarebbe più comprensibile l’interesse femminile per la cura.