“I libri di storia li leggo qualche volta per dovere. Ma non mi dicono niente che non mi annoi. Gli uomini in genere sono dei buoni a nulla, e le donne non ci sono mai”. Così un’eroina di Jane Austen (“L’Abbazia di Northanger”).
Nei libri di Alberto Mario Banti le donne ci sono. Ci sono grazie al riconoscimento degli studi di genere; al contributo di nuove metodologie. Così vengono ricollocate sulla scena del Risorgimento – non solo le più note – attraverso le rappresentazioni, i simboli, le immagini. Attraverso l’osservazione delle emozioni, dei sentimenti, delle contraddizioni nel campo minato della sessualità.
Nato nel ‘57, ordinario di Storia contemporanea all’Università di Pisa (al suo attivo, tra gli altri “La nazione del Risorgimento” Einaudi; “L’onore della nazione” Einaudi; “Sublime madre nostra” Laterza), Banti è un interprete mite ma insieme coraggioso della storiografia sul Risorgimento.
Quale esito attribuisce a quel “fare gli italiani” che fu impresa altamente drammatica, passionale, virilista, niente affatto armoniosa?
“Fare gli italiani” che in realtà è anche “fare le italiane” è un processo che viene spesso descritto come fallimentare per via dello scarso senso di appartenenza a una comunità nazionale. In realtà, si tratta di una progressione continua di nazionalizzazione delle masse, di educazione al culto della nazione che possiede una sua efficacia.
Con la costruzione di un sistema scolastico elementare obbligatorio, dagli anni Ottanta dell’800, le scuole si impegnano nel culto della nazione. “Cuore”, con la sua retorica, nel senso dello stile comunicativo, diventa il best seller di una comunità nazionale. Il punto interessante o per certi versi perturbante è che il processo di nazionalizzazione pieno dell’essere italiano o italiana si completa nel fascismo tra il ’29 e il ‘38.
La casa editrice E/O ha ripubblicato un interessante dibattito uscito nel ’35 su “Giustizia e libertà”, rivista parigina degli esuli antifascisti. Scriveva Carlo Rosselli: “Tra lo Stato italiano dopo il ’60 e il fascismo c’è un rapporto, se non di filiazione, per lo meno di degenerazione progressiva”. Trova assonanze con quel dibattito?
Ne trovo molte. Ci sono aspetti della cultura del Risorgimento che sono integralmente ereditati e raccolti dal fascismo senza cambiare di natura. La nazione è descritta sin dal primo Ottocento come una comunità di destino, cementata dal sangue, dotata di una terra, di una cultura e memorie. Se il sangue è il cemento fondativo, i militanti devono essere pronti a soffrire. Fino a morire in battaglia, da “martiri” del movimento. Viene da qui la costruzione del discorso nazional-patriottico. Sangue, suolo, martirologio bellico sono la matrice del discorso nazionalista che non riguarda solo l’Italia ma è un fenomeno europeo.
Lei dice che il Risorgimento non può essere il mito fondativo della Repubblica italiana. E legge il Risorgimento anche attraverso un inventario ampio di monumenti, diari, carteggi, funerali. Appunto, attraverso dei passaggi molecolari delle idealità risorgimentali. Una metodologia poco frequente tra gli storici. Tuttavia, le critiche nei confronti del suo lavoro hanno un di più di aggressività che lascia perplessi.
La storiografia italiana è, in larga misura, di grandissimo livello però centrata sul politico politico, sull’organizzazione politica, sul progetto e l’azione politica. Ora esiste un altro aspetto del Risorgimento: il fatto che nasce nel contesto della cultura romantica, cultura di passioni nonché di emozioni. Le emozioni appartengono a una cultura molto virilista. Nella quale, ad esempio, non solo le donne ma anche gli uomini piangono continuamente. Piangere non viene considerato segno di effeminatezza bensì manifestazione della propria partecipazione passionale. Comunque, la verità è che tutto il discorso risorgimentale è ad altissima temperatura emotiva. Non si tratta di una peculiarità italiana. E Foscolo, Cuoco, Manzoni, Mazzini, Cavour sono persone che non stanno chiuse nel contesto italiano: leggono, traducono, viaggiano. La nazione britannica, quella tedesca, sono attraversate anch’esse da passionalità forti.
Magari la metodologia e una presa di posizione polemica sul modo in cui viene usato il Risorgimento nel discorso pubblico di oggi sono entrate in corto circuito e hanno suscitato reazioni un tantino sopra le righe.
Certo, scomporre il mito non è un gioco senza rischi. D’altronde, Carlo Azeglio Ciampi e la moglie Franca hanno cantato decine di volte l’inno di Mameli con le mani congiunte sul petto. “Amare l’Italia” non è il progetto di un buon Presidente che voglia far rinascere il senso di appartenenza alla nazione?
L’intento etico è nobile e lo condivido. Ciampi doveva fronteggiare l’attacco della Lega contrapponendo una nazione che rafforza il ceppo di appartenenza e la comunità nazionale. Però il mio problema da storico è che la narrazione sul Risorgimento non deve essere una narrazione positiva. Sennò bisogna nascondere molti aspetti, distorcerne o levigarne altri per costruire un’immagine un po’ manipolata. Io mi chiedo se questa è una cosa che fa bene a tutti noi. Per uno storico penso che il compito sia verificare la tenuta dei miti e decostruirli se questi miti hanno delle falle. E la storia del Risorgimento delle falle ne ha.
E’ evidente che se ci si colloca all’altezza degli avvenimenti, la costruzione dello stato unitario nel ’61 ha degli aspetti che devono essere positivamente valutati.
Uno stato di diritto, lo Statuto albertino, una Camera dei deputati elettivi, un parlamento. Solo che questi aspetti vanno collocati in una cultura politica molto distante da noi. Centocinquanta, duecento anni non è che passano inutilmente. Noi storici abbiamo il compito di selezionare, distinguere, prendere distanza, operare lo straniamento. Con lo straniamento si dissolve la passione che dovrebbe arrivare dalla narrazione patriottica del Risorgimento. Emergono i problemi fondamentali. Il tipo di nazionalismo; la concezione elitista della politica: per i nazionalisti liberali gli individui che possono godere del diritto di voto devono essere maschi, adulti, alfabetizzati e straricchi; niente donne, niente poveri, niente ceti medi, niente stranieri. Per i nazionalisti democratici, questi individui devono essere maschi, adulti; niente donne, niente stranieri.
Esaltare il Risorgimento in modo celebrativo come un movimento dove tutti cooperano armoniosamente? Non è così. C’è una differenza enorme tra l’essere repubblicano o monarchico, democratico o moderato, centralista o federalista. Esistono fratture profonde. Per esempio, l’aperta rivolta del brigantaggio e di converso l’esercito del nuovo Stato nato per piegare la rivolta. Come si fa a costringere in un mito positivo tutto questo materiale?
Quando ha cominciato a occuparsi del tema delle identità sessuali, ma anche di fatti primari come la nascita, la morte, l’amore, l’odio, la sessualità, la riproduzione?
Un quarantennio di storia delle donne ha prodotto lavori straordinari. Io ho affrontato la dimensione simbolica della presenza femminile per la prima volta nella “Nazione del Risorgimento” e poi nell’“Onore della nazione”. Mi pare in realtà che nel Risorgimento la presenza femminile sia stata mortificata. Da subito. Donne caste, pure, angeli del focolare, chiamate a sostenere le azioni dei mariti, fratelli, figli. Se ci si chiede il perché, si deve rispondere che questa mortificazione è propria della cultura postrivoluzionaria. L’Italia poi un problema specifico: gli stereotipi prodotti nei secoli precedenti dai viaggiatori. Il primo è che gli uomini italiani non sanno combattere. Usano il veleno, accoltellano alle spalle. Il secondo che le donne sono di facili costumi. Nel Grand Tour tra XVII e XVIII secolo l’Italia viene descritta come luogo di turismo sessuale dove le donne si offrono al migliore offerente.
Gli italiani dicono: dobbiamo reagire. E lo fanno inventandosi il culto della nazione. Ma cosa hanno in testa? L’idea che la comunità nazionale è una comunità parentale con una genealogia. Una genealogia cementata dal sangue. Se il sangue produce dei bastardi, dal punto di vista della virtù e dell’onore la cosa risulta insopportabile.
Perciò alla donna sarà affidato il compito di essere la prima educatrice ai valori della comunità nazionale. Non solo portatrice di purezza ma anche donna madre.
Se riflettiamo sulla letteratura, quanto alle figure femminili, in quella postrisorgimentale De Amicis tiene a rappresentare una famiglia ordinata, con le madri in ombra e comunque esemplari; Collodi attribuisce alla Fata Turchina il compito di far mettere giudizio all’ex burattino ora umanamente discolo. Questo mentre in America si era già affermato il protagonismo delle “Piccole donne”.
Nella letteratura italiana, i libri che sfondano sul mercato sono quelli che descrivono raccontano una immagine femminile positiva. Non ha successo “Le confessioni di un italiano” con la figura dissidente, spregiudicata della Pisana. Il romanzo di Ippolito Nievo sarà riscoperto solo dopo anni. D’altronde, la legislazione del Regno d’Italia è molto severa con le donne. Così per il Codice civile con l’autorizzazione maritale: lei può chiedere di separarsi dal marito solo se il marito tiene in casa o in luogo notoriamente conosciuto la concubina.
E poi ci sono gli appelli che vengono di più dalla cultura democratica ma anche da quella moderata. Che le donne si facciano avanti, che diano sostegno, incoraggino i propri figli, mariti. Ma fino a che punto le donne partecipano? Nelle esperienze più avanzate come nella Repubblica romana alle donne volontarie al più vengono affidati i servizi di infermeria. O maestre o infermiere. Le professioni che possono essere svolte dalle donne devono ricordare il maternage.
In fondo, viviamo in un curioso Paese dove, accanto all’enfasi sul materno alimentata, nel corso della storia unitaria, da rappresentazioni ideali che proseguiranno nel tempo (la storica Marina d’Amelia a questa agiografia ha dedicato “La mamma. Lo stereotipo del mammismo come carattere nazionale” il Mulino), è cresciuta la misoginia. Le sue radici sembrano difficili da estirpare.
Nell’antologia “Nel nome dell’Italia” abbiamo pubblicato un testo bellissimo uscito sulla rivista padovana “Caffè Pedrocchi”. Si tratta di un dialogo tra un cittadino e una cittadina che rivendica il proprio diritto al voto perché esso consentirà un graduale accesso alla vita pubblica da parte delle donne in quanto individui. In che consiste la vostra universalità se tagliate via metà del genere umano? Se siamo così importanti come madri e poi dobbiamo cucire le bandiere, curare i feriti, scrivere articoli, forse possiamo fare un passo in più.
Il cittadino: “Oh se oggi gli uomini cominciassero a concedervi questo, domani per una simile ragione vorreste avere il diritto di essere anche elettrici per l’assemblea costituente”.
La cittadina: “Il suffragio non deve essere universale? Se escludete le donne cominciate intanto a ridurre a mezzo la vostra universalità”.
Il cittadino : “Ma la universalità del suffragio s’intende riguardo a quelli che ne sono capaci”