I numerosi appelli alla mobilitazione delle donne, di tutte le donne, che ascoltiamo in questi giorni risultano francamente fastidiosi e fuori luogo. Questi inviti alla partecipazione suonano come una richiesta inaccettabile, da un lato perché rifiutiamo di adeguare i tempi e i modi della nostra politica alle regole degli schieramenti partitici e dell’audience televisiva – che peraltro si somigliano sempre di più e sempre più pericolosamente; dall’altro lato, questi appelli, soprattutto da parte della politica maschile (e maschile è in genere la politica dei partiti, anche quando le donne ne sono attrici), mettono a tema la questione della mancata e mancante partecipazione delle donne alla politica.
In realtà le donne fanno politica da molti anni, e la fanno attraverso i movimenti, le associazioni, i collettivi e i comitati, e anche singolarmente. Chi riesce a prescindere dalle logiche partitiche e televisive e dalle loro spinte a mobilitazioni evidentemente strumentali può facilmente constatare che è proprio attraverso le donne, le loro pratiche e la loro politica, che molte questioni fondamentali sono state tematizzate profondamente e acquisite dal corpo sociale.
La politica delle donne, che pure si declina al plurale e si dissemina nelle vite e nelle esperienze differenti delle singole e dei gruppi, si distingue per un tratto comune, per il suo carattere relazionale, per la scelta di percorsi “dal basso” – dove “basse”, appunto, sono la vita e l’esperienza, lontanissime dalle insalubri “altitudini” dei palazzi delle istituzioni e della politica maschile.
Per questo gli appelli alla “partecipazione” sono del tutto fuori luogo: se siamo escluse dalle istituzioni, certo non siamo assenti dalla politica, che facciamo con passione e continueremo a fare nei modi e negli spazi che sono nostri, senza accettare indirizzi e suggerimenti da quante/i non leggono la scritture delle donne, non conoscono le loro riflessioni, non frequentano i luoghi della loro politica.
Rifiutiamo di farci arruolare da chi non ci conosce né ci riconosce come soggetto politico, da chi si ricorda delle donne in modo strumentale e funzionale alla politica partitica, dimenticando e forse del tutto ignorando che le donne possono essere una risorsa e una autentica forza di mutamento. Non ci riconoscono, e ci chiamano alla loro politica, agli schemi di logiche di spettacolo e di palinsesto televisivo che niente hanno a che fare con la nostra politica.
Lo squallido comportamento del Presidente del Consiglio, ultimo di una lunga e tetra serie, non è un nostro problema, vale a dire che non lo riteniamo un problema delle donne. Nel senso che, semmai, nostro è il problema della barbarie in cui siamo precipitate/i e della miseria simbolica (di linguaggio, di pensiero, di modi) che ci circonda.
Preferiamo pertanto spostare l’attenzione dall’insopportabile episodio di cui tanto si parla a tutto ciò che lo prepara e ne costituisce le premesse. È sufficiente uscire dagli angusti bordi del teleschermo per accorgersi, per esempio, che l’odioso e mortifero maschilismo di cui fa sfoggio il Presidente del Consiglio è atteggiamento condiviso e ammirato, è pensiero diffuso, è senso comune. Ed è importante constatare come ciò sia indice di una generale, drammatica incapacità di comprensione e di accoglienza dell’altro/a da sé.
Preferiamo dunque parlare del fatto che ogni giorno, in ogni momento, c’è di che restare attonite/i e scandalizzate/i, e che le situazioni generatrici di disagio e di indignazione sono pressoché quotidiane e continue. Del resto, proprio questi sono gli argomenti che molte donne discutono, che stanno loro a cuore e che ispirano le loro pratiche, in un inesausto sforzo di costruzione di autorevolezza e libertà femminile coniugate con il sogno di un mondo migliore.
Ciò detto, non ha alcun senso chiedere la mobilitazione delle donne, come non ha alcun senso che gli uomini rovescino sulle donne il groviglio della loro politica, il disordine della loro sessualità e la pochezza della loro etica.
collettiva_femminista Sassari, 23 gennaio 2011