Il manifesto campeggia sui muri italiani. Appartiene alla campagna Be stupid della Diesel, filone spiritoso-demenziale. Nel manifesto il giovanotto stringe con una mano la natica femminile fasciata dai jeans mentre dell’altra natica fa un grande boccone: «You’ll eat better».
Niente moralismi, per favore. Non ci scandalizziamo. Naturale che lei venga sussunta e riassunta nel suo didietro mentre lui si comporta in modo vorace, addirittura bestiale. Somiglia al lupo di Cappuccetto rosso che apriva le fauci «per mangiarti meglio».
Vabbè. Siamo gente di mondo. Sappiamo che il corpo femminile fa vendere automobili, mele e sofà «Beato chi se lo fa». È la pubblicità, bellezza.
Però questo corpo femminile ricompare sotto una pessima luce nelle ricette di tanti programmi televisivi. Curiosamente, la televisione oscilla tra una debole attenzione per le donne (che pure nella società ci sono e lavorano, pensano, curano le relazioni) – quasi che l’Italia fosse abitata da un solo sesso (quello cosiddetto forte) – e l’interesse estremo per l’aspetto fisico – curve sopra e curve sotto – da mettere in mostra, concupire, utilizzare con modalità più o meno «finali».
Ammettiamolo: il lavorio sui segni infligge al sesso femminile un trattamento poco dignitoso. Eccola, l’anomalia italiana. Una misoginia che banalizza la rappresentazione della donna raccontata come non avesse rispetto di sé e gli altri non la rispettassero.
«Dio mio, che cosa ho fatto per meritarmi questo?» Per meritarmi il gap tra paghe maschili e femminili, le difficoltà di occupazione, la disoccupazione, la fatica a tenere insieme i fili del lavoro e quelli della maternità, gli uomini che non aiutano a casa?
Stesso discorso quanto ai luoghi politico-istituzionali dove vige un antico disinteresse unito a coriacea noncuranza nei confronti del «gentil sesso». A volte con un messaggio esplicito. Altre con venature ammiccanti, paternalistiche.
Se gli altri paesi europei non brillano, comunque al di là delle Alpi la situazione è migliore. Almeno a leggere gli elenchi di signore manager, governi al femminile, «sorpassi» nello studio, trionfi nella ricerca.
Lo strano è che del panorama italico così grigio pochi sembrano indignarsi, benché l’Italia detenga la non invidiabile definizione di «fanalino di coda» quanto a condizione femminile. Se il «New York Times» titolava un pezzo sugli «alti costi del machismo», da noi i costi sono altissimi.
Significa che l’Italia è un paese misogino?
Il grande pubblico non risponde. Indifferente, prigioniero di una accidiosa inerzia collettiva nonostante al tema del corpo offeso delle donne reagiscano associazioni femministe, libri e campagne della «Repubblica».
Tra quanti protestano, è comparso un gruppo di senatrici volenterose con un disegno di legge In materia di contrasto alla discriminazione della donna nella pubblicità e nei media. Una discriminazione che si serve di messaggi i quali «suggeriscono, incitano o non combattono il ricorso alla violenza esplicita o velata, alla sottovalutazione, alla ridicolizzazione, all’offesa delle donne». Nel processo di oggettivazione – prosegue il disegno di legge – il corpo femminile perde la sua integrità «viene minimizzato ad alcune sue parti, rappresentate come elementi separati dalla persona, ridotte alla funzione di meri strumenti». Si spiega in questo modo l’immagine femminile privata di individualità e personalità.
Le senatrici invocano misure più o meno repressive: pecette adesive con scritto «sanzionato» sui manifesti offensivi, ammende, tre mesi di arresto. Temo però che simili misure non arresteranno il consumo visivo di carne femminile, la sua degradazione sul piccolo schermo. Messa così, tra la pupa e il secchione, non c’è partita. Dato che in televisione funziona il modello tette-culo, niente testa, niente pensieri. Meglio ancora, funziona un modello che suggerisce disponibilità sessuale.
Succede in tempi nei quali uno dei «falchi» berlusconiani, eletto in Parlamento, può spiegare tranquillo che «con il corpo si fa carriera». Qualcuno alza le spalle. D’altronde, il Parlamento ha perso molta della sua aura. Il colpo finale glielo ha dato il patto di «pace» Bossi-Polverini-Alemanno, siglato a piazza Montecitorio, invocando per testimonial un piatto di rigatoni con la pajata.
Eppure, il binomio corpo e politica tira. Il compleanno di Casoria, le ragazze-immagine nel lettone di Putin, quel mischio di marketing e disinvoltura sessuale hanno arricchito la weltanschaung di un premier che si fregia di collezionare successi femminili a pagamento. Da aggiungere che ha provocato un qualche sconcerto (tra le donne, almeno) l’intignare intorno alla separazione, sottolineata da Berlusconi, tra belle e brutte, giovani e vecchie, aggraziate e sgraziate.
Paradosso dei paradossi, in un paese dove «piacemi in donna la bellezza che dura», l’apparenza fisica rischia di tradursi in fattore di discriminazione. Una signorina o signora che non sia maliarda o sirena, di questo passo penerà a trovare lavoro e la parlamentare, per diventare tale, avrà partecipato alla gara di Miss Italia. Le cheerleader, plaudenti al capo, confermano che sì, la selezione ha da essere principalmente estetica. Soprattutto dalle parti dell’emiciclo destro del Parlamento.
Intanto di donne ce ne sono poche nei luoghi della rappresentanza, nei consigli di amministrazione, nel business dell’impresa, in politica, nelle funzioni di responsabilità. Resistenza maschile uguale disprezzo per il sesso femminile?
Suppongo che questa resistenza rassicuri il sesso forte, lo consoli, prometta di riportare in auge la gerarchia degli uomini sulle donne. Non a caso si afferma soprattutto nel circolo politico-mediatico, dove il potere maschile è ancora tanto pervasivo quanto in sempre maggiore crisi di autorevolezza.
Dite che l’interpretazione è capziosa, che non c’è dietro «un piano del capitale»? La virilità del «sesso forte», frastornata dalla espressione della libertà femminile, ha bisogno di rincuorarsi cercando una rivincita su e contro il corpo delle donne. Fino all’uso della brutalità. Ordinaria, eccessiva, omicida.
Il che non significa – lo sottolineo – che gli uomini siano tutti violenti.
Che gli uomini siano tutti misogini. Sulla misoginia si interrogano documentari come Videocracy di Erik Gandini, Il corpo delle donne di Lorella Zanardo, che hanno prodotto una discussione pubblica. A questa discussione partecipano a pieno titolo gli interventi di Adriano Sofri e il libro di Umberto Veronesi.
Infine, dobbiamo parlare anche di noi e dell’ostilità che – confessiamolo – a tratti riserviamo alle nostre sorelle. Siamo donne e siamo misogine: da che dipende questa ambivalenza?
La risposta potremmo trovarla nei Piccoli racconti di misoginia (Bompiani 2002), di Patricia Highsmith dove sfilano figure femminili lamentose, incerte, insicure, che abbandonano i progetti a metà, che accettano la condizione di gregarie dei maschi, che inseguono innamoranti a perdere. Anche noi ci consideriamo svantaggiate, ci perdiamo dietro invaghimenti senza costrutto, accusiamo il mondo di ingiustizia. Contemporaneamente, non sopportiamo il vittimismo, i comportamenti femminili miseri e subalterni. Che ne facciamo di questa ambivalenza, di questa contraddizione affinché si trasformi in forza, e forza per tutte?