Bia Sarasini mi ha detto che ha molto apprezzato l’articolo di Christian Raimo che DeA qui pubblica (è uscito anche sul “manifesto” e sul sito MinimaetMoralia). Io l’ho letto e riletto, ma non riesco a superare una prima impressione, come dire, molto interrogativa.
Naturalmente è giusto riflettere sul perché oggi sia così difficile, specialmente per le generazioni più giovani costrette nella condizione del precariato, e in particolare nel lavoro precario “cognitivo”, reagire a grandi ingiustizie cercando azioni, pratiche politiche, relazioni e reazioni collettive. Ma per quanto mi riguarda già scrivere questo termine, “collettive”, apre una serie di problemi e di esigenze di puntualizzazione critica a cui voglio solo accennare.
A maggior ragione non mi convince in nessuno modo l’opposizione che Raimo stabilisce tra ciò che chiama “coscienza di classe” e la scelta della ragazza che ha conosciuto, e che pur guadagnando poco e non avendo un lavoro garantito – anzi in buona misura proprio per questo – sceglie di investire in una terapia analitica per venire a capo di una sua condizione di disagio, nei rapporti con la famiglia, col mondo ecc.
Certo una analisi può essere interpretata – e gestita – come un modo per riconciliarsi con una situazione negativa che andrebbe invece criticata e contestata, anche grazie a una azione “politica”. Insomma quella “interiorizzazione” del conflitto che da il titolo al pezzo.
Ma è possibile un’altra interpretazione. Se l’analisi è utile a una migliore coscienza di sé e dei propri rapporti con gli altri e con il mondo a me sembra un passaggio assolutamente “politico” : utile magari anche per giungere a forme più consapevoli di azioni basate su relazioni “collettive”.
Potrebbe non essere un caso che qui un giovane scrittore uomo prenda a riferimento una giovane intellettuale donna. Nella mia generazione – quella dei sessantenni che cercano di aiutare i propri figli trentenni, per la verità senza aspettarsi niente in cambio, se non l’affetto che già esiste – c’è l’esperienza di relazioni e conflitti complessi tra i due sessi, e l’aver visto molte donne preferire un lavoro su di sé, con un frequente ricorso anche all’analisi, alle forme di un agire politico collettivo informato alla “coscienza di classe”. Forme praticate da noi maschi di sinistra con esiti assai discutibili, a dir poco.
Raimo dice “coscienza di classe”, “conflitto sociale” o “quantomeno affratellamento”. Capisco la buona intenzione, ma sinceramente non credo che queste parole – che evocano una cultura politica abbastanza precisa – possano essere utilizzate così senza dichiarare che cosa possano in concreto significare oggi.
Io so che siamo ancora immersi nelle conseguenze negative – negative fino alla catastrofe – di un uso dissennato delle azioni collettive informate dalla “coscienza di classe”. Mentre il “partire da sé” inaugurato dalle donne si è dimostrato molto più efficace per cambiare il mondo (altro discorso è quanto questo cambiamento faccia problema alla metà maschile del cielo).
Certo il mondo va cambiato ancora, e molto: così com’è non ci piace (e il desiderio cercherà comunque sempre nuove vie). I più giovani che stentano a conquistarsi una vita “serena” hanno mille motivi in più per volerlo cambiare. Se esitano a reagire facendo leva su una qualche forma di “coscienza collettiva” hanno però tutta la mia comprensione. Peraltro, non è nemmeno vero che nell’ultimo decennio (ricordo Genova 2001, e tutte le capitali del mondo nel febbraio 2003 contro la guerra di Bush) non ci siano stati, e non si manifestino anche oggi, movimenti critici con forte presenza giovanile.
Una nuova “coscienza di classe” – completamente da reinventare – dopotutto sarebbe necessaria. Ma se non nasce da una nuova autocoscienza di individui e individue non porterà – ancora una volta – a nulla di buono.