Attorno allo scontro materiale e simbolico di Pomigliano i media si sono accorti che esistono ancora gli operai. A sinistra si è scritto giustamente – cito solo gli articoli di Mario Tronti e di Marco Revelli sul “manifesto” dei giorni scorsi – che la quantità di “no” pronunciati nella massiccia adesione al referendum, per quanto minoritaria, è anche una “lezione morale”. La realtà di milioni di uomini e donne che ancora lavorano in fabbriche dove i turni di lavoro alla “catena” sono già massacranti e rischiano di peggiorare ancora è come magicamente ricomparsa. La loro vita comincia riaffiorare come una realtà capace di reazioni, di sentimenti e ragionamenti, di scelte politiche.
Alcuni giorni fa sulle pagine del “manifesto” sono intervenuto dopo gli articoli di Rossana Rossanda, e la risposta di Lia Cigarini, Giordana Masotto e Lorenza Zanuso, sul tema dell’”altra metà del lavoro”, invitando a esprimersi gli uomini – i maschi – della sinistra (e non solo della sinistra) che ripetono l’esigenza di rifondare la politica sul lavoro, ma poi non sembrano in grado di analizzare quali siano oggi le caratteristiche reali del mondo del lavoro, a cominciare dal fatto – per me fondamentale (l’intervento è riprodotto anche in questo sito) – che l’ingresso massiccio delle donne nel mercato del lavoro, per quanto ancora indietro in Italia, ha modificato radicalmente la relazione tra lavoro e vita, tra produzione e riproduzione.
Mi chiedo perché non ci sia stata finora alcuna risposta o ripresa maschile di questo argomento, nonostante il ritorno di interesse per le condizioni del lavoro operaio.
Mi si potrebbe obiettare: che c’entra con Pomigliano?
C’entra e provo a dire perché. Intanto se la realtà del fatto che il lavoro moderno è fatto da uomini e donne non sembra meritevole di interesse da parte degli uomini che sono intervenuti in questi giorni – anche svolgendo considerazioni condivisibili come quelle di Tronti e Revelli – una volta tanto sono stati alcuni media a registrare questo aspetto della questione.
Un servizio da Pomigliano di Teodoro Chiarelli pubblicato dalla “Stampa” ha raccolto le opinioni di alcune operaie, e ha registrato il fatto che i “no” sono stati con ogni probabilità più numerosi proprio nel voto femminile tra operaie e impiegate. Ritmi ancora peggiori nella fabbrica, hanno detto alcune, sono del tutto incompatibili, soprattutto se si hanno figli. La Repubblica ha raccontato due figure operaie: un uomo di Pomigliano e una donna della fabbrica polacca della Fiat.
Ma è anche successo che un gruppo di mogli di operai di Pomigliano si sia rivolto a Marchionne, invitandolo e andare di persona a provare come si lavora alle catene di montaggio della sua fabbrica. La cosa interessante in questa vicenda è che dalla voce dei protagonisti e delle protagoniste emerge una valutazione spesso simile dei nessi tra lavoro e qualità della vita sia per chi ha votato no, con la convinzione che non è possibile andare oltre un certo limite nell’accettare un aumento dello sfruttamento sotto il ricatto del posto di lavoro, sia in chi ha votato si, per un “realismo” però perfettamente consapevole del ricatto subito.
Ecco come riferisce l’Ansa il punto di vista di due mogli di operai: “Marchionne ed i dirigenti Fiat si passino una mano sulla coscienza – afferma una di loro, Stefania, mamma di due bambini -. Mentre loro vanno al mare, qui si stanno sfasciando tante famiglie in quanto da due anni lo stipendio è ridotto”, dice Stefania che sostiene di non aver dato consigli al marito per il referendum: “Fa di testa sua – spiega – e forse se me lo avesse chiesto gli avrei detto di votare sì. Ma ha scelto il no, e ha fatto bene, perché le condizioni dettate dall’azienda sono inaccettabili. Inviterei l’Ad della Fiat a scendere di persona sulle catene di montaggio, in modo che si renda conto di ciò che sta chiedendo agli operai”. “Tante cose le comprano i nonni – dice Lucia, 38 anni, due figli di 4 e 5 anni – i bambini crescono velocemente, e hanno bisogno di vestiti, scarpe. Alle giostre, ormai, ci hanno rinunciato, da due anni non si vede neanche l’ ombra della spiaggia, e il piccolo avrebbe bisogno di un po’ d’aria di mare. Si va avanti, ma siamo pronte a scendere in piazza per difendere il Vico dalla chiusura: mio marito ha votato sì per i suoi figli, e la decisione è stata forzata dall’azienda che li ha messi spalle al muro”.
C’è qualcosa di semplicemente umano e antieroico nella descrizione di queste condizioni di vita, che forse spiega il silenzio o l’imbarazzo di tanti politici e sindacalisti. La forza simbolica della “classe operaia” è stato un fondamento dell’azione politica della sinistra, e ha informato la dialettica della politica quando era diffusa una ideologia: la centralità della classe operaia, che derivava dall’idea marxista che la liberazione dei proletari avrebbe liberato l’intera umanità. Questa ideologia era molto forte perché riposava su realtà di fatto: la lotta tra capitale e lavoro, e una soggettività operaia che era molto legata al “saper fare”, al sentimento di dignità che riposava sull’organizzazione collettiva per costruire un futuro migliore (il socialismo) e sul rapporto con il proprio lavoro, con il proprio prodotto. Si dovrebbe forse riandare – ma non è questo il luogo – al passaggio ideale e politico che a un certo punto c’è stato tra la figura dell’operaio specializzato, la cui autorità sociale era anche legata alla sua professionalità, a una forte etica del lavoro, e quella dell’”operaio-massa”, al quale è stata legata l’idea di un antagonismo sociale che si spingeva fino al rifiuto del lavoro.
Resta che queste figure sociali, più o meno ideologicamente connotate – con elementi anche di falsa coscienza – non si danno più.
Ho trovato significativo che il “ritorno” delle figure operaie sulla ribalta mediatica accesa dal “caso Pomigliano” sia stato come preceduto da alcune evocazioni di segno negativo. Il fatto che di condizione dei lavoratori si sia parlato molto spesso negli ultimi anni quasi esclusivamente per eventi luttuosi: le morti bianche.
L’emergere di figure negative in alcuni prodotti di “fiction” cinematografica e letteraria. Penso al padre-capocantiere edile ritratto nel film “La nostra vita”, accecato dal consumismo e dalla smania di fare soldi a tutti i costi, o al panorama desolante di figure di padri operai violenti o criminali, e di giovani maschi avviliti dal sesso e dalla droga ritratti nel romanzo “Acciaio” di Silvia Avallone. Qui alla fine la spinta positiva prevalente è quasi unicamente quella che lega le due amiche adolescenti protagoniste. Eppure il paesaggio dominato dagli impianti della fabbrica siderurgica e il particolare legame, conflittuale ma intenso, dei giovani con questo duro lavoro lascia intravvedere anche qualcosa che potrebbe essere positivo. La memoria di una politica vicina alla classe operaia resta come senza vita nella toponomastica: via Stalingrado, via Gramsci ecc.
“Acciaio” ha fatto discutere, non solo per i pareri diversi sul suo valore letterario, ma anche nei luoghi dove è ambientato: il sindaco di Piombino e numerosi abitanti hanno rifiutato l’immagine negativa che riproduce. Però il romanzo è una descrizione intensa dell’Italia di oggi: un luogo in cui il patriarcato, e anche la figura dell’operaio, hanno perso credito.
Un luogo in cui emergono i desideri di libertà e le inquietudini femminili, e i maschi restano spiazzati.
La perdita di autorità non riguarda solo le figure maschili del potere (dal ceto politico, alle gerarchie ecclesiastiche, al mondo dei media, dell’accademia ecc.) ma anche quelle che incarnavano una autorità sociale popolare. Marchionne ha potuto irridere agli operai di Termini Imerese, accusati di scioperare per vedere la partita. Ma alla fine la partita sembra averla persa soprattutto lui.
La vicenda di Pomigliano ha reso – almeno per un momento – esplicite alcune cose: gli operai e le loro mogli, e le operaie, possono riconquistare forza simbolica e autorità sociale semplicemente dando voce al loro desiderio di una vita dignitosa, in cui non si accettano supinamente i ricatti di un capitalismo “vincente” ma anche stretto in una crisi senza precedenti.
Con la qualità direttamente politica del loro lavoro e delle loro vite viene in gioco anche un’altra “vecchia questione”: il rapporto tra il lavoro e il senso del prodotto del lavoro. Le cose più lucide sulla vicenda Pomigliano forse le ha scritte Guido Viale (ancora sul “manifesto”), mettendo in discussione la sensatezza di progetti industriali che ancora puntano alla diffusione di una merce sempre più antidiluviana come l’automobile.
L’operaio specializzato di una volta costruiva la propria autorità sociale e politica anche perché eseguiva molto bene il suo “pezzo”, che poteva essere indifferentemente parte di una turbina, di un locomotore o di un cannone. Oggi deve essere riempito il vuoto di senso che si allarga sul “valore d’uso” e sulle compatibilità ambientali di quello che produciamo. E la cosa tocca prima di tutto a chi produce, chi coltiva, chi commercia.
Infine è ormai evidentissimo che le condizioni di vita di chi lavora vicino a Napoli, e in qualsiasi altra località italiana, sono sempre più strettamente legate alle condizioni di vita di chi lavora in Polonia, in Cina, in tutte le altre parti del mondo.
Adriano Sofri ha scritto su “Repubblica” di una “catastrofe” del lavoro, anche per
l’assenza di una “Internazionale”. Ora qui il punto a me pare molto semplice, anche se molto, molto difficile. Questa “Internazionale” va ricostruita, certo con i metodi e la cultura del nostro tempo, del tempo della rete e dell’informazione in tempo reale. Alle notizie su Pomigliano si sono sovrapposte le notizie che parlano di scioperi e rivolte sempre più frequenti in Cina con la richiesta di migliori condizioni di vita e di lavoro.
Una politica che volesse davvero cambiare le cose dovrebbe avere l’ambizione di considerare insieme queste cose: la libertà di donne e uomini che desiderano una vita degna di essere vissuta qui e ora, senza immaginare un futuro paradiso in terra conquistato da prometeici soggetti collettivi; il bisogno di produrre oggetti utili, che non distruggano beni essenziali; la convenienza di tutti quelli che hanno meno potere – e che non sono accecati dal desiderio di potere – di mettersi in relazione tra loro.