Mi auguro che venga raccolto l’invito di Rossana Rossanda a discutere sull’”altra metà del lavoro”, a partire dalle tesi del Sottosopra “Immagina che il lavoro”. Soprattutto da quegli uomini di sinistra che ripetono ossessivamente: la politica va rifondata sul lavoro. Ma poi si bloccano di fronte alla necessità di ridefinire la realtà del lavoro oggi, dopo l’esaurimento delle vecchie categorie di interpretazione.
Certo la gravità e l’imperscrutabilità della crisi in cui si è improvvisamente avvitato il sistema capitalistico e le conseguenze molto pesanti che produce sulle condizioni di chi lavora, e di chi il lavoro lo perde o nemmeno lo trova, può scoraggiare qualsiasi approccio che non parta da questa cruda emergenza.
Eppure proprio la crisi deve spingere al cambio del punto di vista. Alla ricerca delle leve nascoste che possono rimettere nelle mani di chi non ha potere la forza per cambiare.
Molto si è detto sui mutamenti del lavoro. Il lavoro non è più materiale ma cognitivo. Il lavoro è finito. E’ soprattutto autonomo. Anzi no, dopo il fordismo, e con la globalizzazione, aumentano soggezione e forme di inedito schiavismo, soprattutto di precarietà… Il nuovo soggetto? Il migrante, il clandestino, la moltitudine…
Ma la trasformazione più profonda non è stata colta: le donne sono entrate in modo stabile nel mercato del lavoro. Questo ingresso continua, e chiede un cambio di paradigma.
Per carità, è giustissimo vedere ciò che manca: le donne sono ancora indietro, guadagnano meno degli uomini, sono più precarie, non fanno carriera, se non raramente, la maternità le penalizza, ecc.
Resta però quello che c’è: il fatto che il desiderio femminile di lavorare sembra irreversibile, anche nella sgangherata Italia familista. Gli ultimi dati Istat – con la loro drammatica evidenza sulla disoccupazione giovanile – dicono anche che nella crisi l’occupazione femminile finora ha retto meglio. In un anno gli occupati (13 milioni e 613 mila) sono calati di 263 mila unità ( – 1,9%) e le occupate (9 milioni e 218 mila) di 44 mila unità (- 0,5%). L’ultima variazione mensile segna un più 0,7% per le donne, zero per gli uomini. Questo dopo decenni di crescita costante: tra il 1993 e il 2004 parliamo di un milione e mezzo di nuove lavoratrici, a fronte di 223 mila nuovi lavoratori.
Certo il tasso di occupazione femminile, al 46,1% (una media tra le aree del Centro Nord a livelli tedeschi – oltre il 60% – e un Sud molto più arretrato) resta sensibilmente più basso degli standard europei. Ma quando leggiamo che le altre 9 milioni e 631 mila donne italiane sono “inattive” proviamo un forte senso di irrealtà per questo termine statistico. Sappiamo benissimo che madri, sorelle, nonne, mogli e compagne lavorano moltissimo anche quando non ricevono uno stipendio. Per questo dubito che l’equiparazione dell’età pensionabile sia senz’altro cosa giusta e da fare subito. Se fossi una donna – per dir così – vorrei discuterne in modo molto ma molto approfondito: valutare bene costi e vantaggi, tempi e modi, sacrifici e opportunità, quando e per chi.
E’ il paesaggio qualitativo del lavoro e il suo rapporto con il mondo delle nostre vite che è radicalmente mutato. Non credo che la “femminilizzazione” vada apprezzata perché rende il lavoro “fluido e soave” (mi interrogherei però sull’attenzione sempre maggiore che al tema dedica la confindustria più dei sindacati). Da anni lavoro nella pubblica amministrazione: ho incontrato tante colleghe ricche di professionalità, con passione per i loro compiti, voglia di emergere (non senza strategie aggressive e seduttive ), e sempre costrette ai salti mortali per tenere insieme lavoro, figli e mariti, carriera, o comunque la ricerca di un equilibrio di vita soddisfacente.
In un grande Comune o in una amministrazione regionale è questo il colpo d’occhio: la presenza femminile è maggioritaria nelle fasce impiegatizie e tra i quadri intermedi. E’ forte ai livelli di alta direzione. Si riduce a sparute unità quando si passa al governo politico.
Detto per inciso, il discorso su un indistinto “fannullonismo” agitato dal ministro Brunetta dimostra ancora una volta la cecità della politica maschile verso i processi reali, e ignora che per migliorare le cose bisogna prima di tutto saper riconoscere la qualità e la motivazione. Che negli uffici pubblici, come – ancor di più – nella scuola di base, hanno un forte segno femminile.
Ha ragione Rossanda: serve una nuova “mappa dei desideri” per una politica che cambi le cose. Per quanto ne capisco, penso che il “doppio sì”, alla maternità e al lavoro, e più in generale al lavoro e agli altri interessi, affetti, passioni, esprima i desideri femminili. Ma il punto nuovo è che il Sottosopra, testo che viene da una storia femminista, si rivolge anche agli uomini. Ci interroga. Rispondo e scommetto che anche tra noi maschi, specialmente tra i più giovani, si va diffondendo la voglia di un modo diverso di lavorare e di legare lavoro e vita. Inclusa la sfera affettiva, e la paternità.
Ho trovato interessante il film “La nostra vita”. Un giovane padre rimasto solo con i figli reagisce aderendo al modello dominante del consumismo sfrenato e del denaro a tutti i costi. Alla fine forse capisce che qualcosa di meglio sta nel valore di ciò che ci lega più profondamente agli altri. Forse l’happy end è irrealistico. Forse inseguire questa mappa dei desideri – come nota ancora Rossanda – ci porta a un nuovo utopistico “vogliamo tutto”, fino al vagheggiamento illusorio di un “comunismo” a portata di mano.
E se invece queste spinte impossibili ci aiutassero a perseguire il possibile di un’organizzazione del lavoro meno disumana, di interventi pubblici più intelligenti, oltre la logica statica delle “pari opportunità”?
Se provassimo a cambiare il mercato cominciando a rompere – con visibili mani, teste, cuori – le barriere che lo separano dall’economia dei nostri sentimenti e della nostra libertà?