Colpisce, sull’ultimo numero di Io donna, che ben tre (su sei) rubriche di opinioni alludano alla genitorialità. Marina Terragni commenta l’improvvida dichiarazione di Mariastella Gelmini, “non starò a casa neppure un giorno”, riferita alla sua prossima maternità. Quando si occupano posti importanti, bisogna “far dimenticare di essere nate donne”, “schiacciando la maternità in una parentesi sempre più stretta”?
Maria Laura Rodotà racconta di come babbi e mamme di ogni tipo discutano di figli e gravidanze su Facebook, “peggio che fuori da un asilo”. Mentre Aldo Cazzullo polemizza con le “mamme (ricche) che amano troppo”, e cioè Margherita Agnelli e Veronica Lario Berlusconi che pretendono un’equa spartizione del patrimonio familiare tra i figli. Pretesa ingiusta, sostiene Cazzullo, perché si tratta di aziende che “rappresentano una quota significativa dell’economia nazionale”. Sempre sul Corriere della sera Francesco Giavazzi, in un ampio articolo dedicato al “welfare all’italiana”, provoca le donne (29 novembre, 1 dicembre) chiedendosi se non sia colpa loro se non ci sono asili nido e servizi che le sollevino dall’eccesso di lavoro di cura.
Sta di fatto che sui giornali, e non solo sui femminili, si parla di madri e di padri molto più di una volta. Su Repubblica (23 novembre) è il test di paternità a provocare discussione. In Italia le richieste del test sono aumentate del 20 per cento. Anzi, scrive Maria Novella De Luca, “spinto da sentimenti e paure, da tradimenti e insicurezze”, si è sviluppato un vero e proprio businnes, con i kit per le analisi comprati su Internet e i risultati a domicilio in tempo di record. Il commento di Chiara Saraceno è severo: qualsiasi sia il risultato del test, dice, “aver dato seguito a quel dubbio costituisce un atto di disconoscimento interiore, una potenziale sospensione del rapporto di paternità”.
Sembrerebbe un parere da condividere. Invece non è d’accordo Lucetta Scaraffia che su Il Riformista (26 novembre) difende il bisogno di certezze biologiche dei padri. E’ “normale”, scrive, “essere assaliti da dubbi e paure, soprattutto quando il figlio non corrisponde alle aspettative in lui riposte”, (vien da pensare che la maggioranza dei padri potrebbe ricorrere al test genetico). Ma Scaraffia va oltre, e sostiene che chi rivendica il primato del valore “culturale” della paternità in realtà vuole solo difendere il sistema della fecondazione eterologa.
Meno dietrologica e più “sentimentale” è l’osservazione di Fulvio Scaparro (Repubblica, 23 novembre): “non sarà certo un esame genetico a darci la sicurezza di un amore”.