Nel mondo in cui siamo state messe a vivere, non è una novità che noi – le donne – ci ritroviamo per parlare lontano da orecchie maschili. Magari sottovoce, a scambiarci frammenti di discorsi amorosi, umorali, tristi, rabbiosi. Il plot non varia poi tanto: uomini tanto cari quanto detestati, legami affettivi troppo complicati o troppo semplici per possedere una qualche patente di nobiltà, patti calpestati di amiche/nemiche.
In fondo, si trattava – e si tratta – di una pratica sociale. Certo, pudica. Maltrattata essendo cose del cuore o, peggio, delle viscere femminili. Una pratica deprezzata, svilita, del genere “le donne sono fatte così; è roba di donne“, inchiodata alle parole delle donne. Chiacchiere di serie b. Giacché non rispondono a una esigenza collettiva, al programma morale o militare, al manifesto etico, alla strategia del ragno ovvero a un molto pensoso piano strategico. Poverette noi senza niente di serio da mettere a nudo. E se magari quel “niente di serio“ accenna a un lavorio segreto della coscienza, è vietato raccontarlo. Vita privata e vita pubblica hanno da restare separate. Il personale non è – non è ancora – politico.
Nel frattempo, i portatori di coscienza valutano, soppesano. Decidono con uno sbadiglio: questi messaggi grondanti sentimenti, lacrime, mancanze sono paccottiglia. Collanine di parole senza capo né coda. Peraltro, in tempi postmoderni, non c’è più il diavolo a metterci la coda e si è capito che le donne non si danno più appuntamento al sabba, nella notte tra sabato e domenica. Se gli piace, vadano pure avanti con il loro assurdo separatismo.
Grazie tanto per la magnanimità. Ma a un certo punto, noi, vale a dire le donne, decidiamo che urge cambiare. Occorre uno sforzo? Facciamolo. Proviamo a risciacquare i panni in Arno. Ovvero nobilitiamo le parole. Esercitiamo il linguaggio così da pronunciare dissertazioni all’altezza. All’altezza di chi? Degli uomini ovviamente.
D’altronde, abbiamo un grande bisogno di denunciare ingiustizie e sfruttamento. Il gioco vale la candela. Il gioco si chiama emancipazione. Ci infiliamo nella porta semiaperta dei partiti di massa, delle organizzazioni sindacali, anche della chiesa (a certe condizioni): ma sì, portiamoci alla pari con l’altro sesso. Forme, rituali, relazioni introduttive, interventi dalla fontanella al centro del globo e ritorno alla fontanella.
Ce l’hanno spiegato dei bravi e onesti preti, professori, dirigenti: Se intendete stare con noi, dovete somigliarci. Benché donne siete e donne resterete, con qualcosa in meno di ciò che connota la differenza maschile (ovvero il fallo) e che ci ha permesso, simbolicamente e praticamente, di costruire la cattedrale di Santiago di Campostela, di scrivere intorno all’ “ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha“ e pure di musicare la tiritera delle streghette scozzesi “Tu, lingua di vipera/Tu, pelo di nottola/Tu, sangue di scimmia“ vicino a una caldaia che ribolle. Sia chiaro: i posti sono già assegnati dal copione. Protagonisti noi maschi; voi femmine con una bella parte da recitare, ma scritta da noi.
Segue l’adattamento richiesto. E pazienza per la sensazione di disagio che ci si appicca addosso. Lì così nei luoghi dove ci presentiamo da gentili ospiti, invitate permanenti o, quando va male, con la sensazione del parvenu. Il corpo femminile fuori posto, costretto a accettare il direttivo, l’assemblea, la manifestazione, il corteo; servizio d’ordine compreso quando si arriva allo spettacolo messo su dagli extraparlamentari. In sintesi, se la parola fa l’uomo libero, noi godiamo di libertà condizionata.
Avere coscienza di noi, per il semplice appartenere al sesso femminile, perché siamo donne nate da donne, rientrava nei sogni, negli struggimenti. Fino a quando non compare l’autocoscienza.
Non interrogateci sulle date, luoghi e nomi. All’incirca l’inventano negli Stati Uniti, verso la fine degli anni Sessanta. Una pratica politica che consiste nell’ “elevare la consapevolezza“ (consciousness-raising) di “un gruppo volutamente piccolo, non inserito in organizzazioni più vaste, formato esclusivamente da donne le quali si riuniscono per parlare di sé o di qualsiasi altra cosa purché sia in base alla propria esperienza personale“ preciserà la Libreria delle donne di Milano in “Non credere di avere dei diritti“.
La pratica arriva rapidamente in Italia. Semina qua e là piccoli gruppi. Tra i primi, quello di Carla Lonzi, Rivolta femminile, Anabasi e Demau. A Milano, a Roma, siamo donne giovani e meno giovani, alcune già sposate, con figli, con un lavoro. Nessun problema anagrafico o grida di largo ai giovani o minacce di far fuori la vecchia, la carampana, la babbiona. Di posti da occupare nel cerchio dell’autocoscienza ce n’erano quanti si voleva. D’altronde, a chi sulla scena illuminata della politica rivendica una collocazione, una medaglietta in quanto “giovane“, vorremmo spiegare che allora – per le donne – non era l’età a contare ma la disponibilità alla trasformazione.
In quel cerchio o piccolo gruppo, scopriamo che l’impressione di trovarci perennemente in scacco non appartiene alla singola e sfortunata donna. “Il senso di essere delle spostate, delle asociali, delle nevrotiche, isteriche, pazze“ (racconterà la pubblicazione “Sottosopra“, dedicata alle “esperienze dei gruppi femministi in Italia”) è di tutte.
Per questo ci dobbiamo separare dal modo in cui gli uomini ci raccontano. Parlano di noi. Perché non siamo complementari al “sesso forte“. Non siamo: la moglie di… la signora Tale…
Dice Carla Lonzi: “Il femminismo ha inizio quando la donna cerca la risonanza di sé nell’autenticità di un’altra donna perché capisce che l’unico modo che ha di ritrovare se stessa è la sua specie. E non per escludere l’uomo, ma rendendosi conto che l’esclusione che l’uomo le ritorce contro esprime un problema dell’uomo, una frustrazione sua, una consuetudine sua a concepire la donna in vista del suo equilibrio patriarcale“.
Attraverso esperienze vissute ognuna intravede un groviglio oscuro fino a quel momento strangolato dal silenzio. Ma guarda! Lo sfruttamento materiale ha cause e effetti che non dipendono solo dall’arretratezza della società bensì dalla presa di potere dell’uomo su un fare – fare bambini – inscritta nel corpo delle donne.
Cinque autori – quattro femmine e un maschio – all’inizio degli anni Settanta, nella “Coscienza di sfruttata“ mettono il dito sulla piaga: nella società patriarcale e soprattutto nel sistema capitalistico lo sfruttamento della donna obbedisce all’uomo nel suo affermarsi come “libero individuo separato“.
Così comincia la presa di coscienza: dalla parola scambiata con le proprie simili. Una parola che rimanda alla comune identità femminile, nonché a una socialità tra donne che non si è perduta con il trascorrere degli anni. Per questo servono luoghi dove parlarsi, ascoltarsi, stare e progettare insieme, separatamente, per coinvolgere corpo e sessualità in uno spazio non regolato da interessi maschili.
Di cosa ragioniamo? Beh, principalmente del sesso maschile, della subordinazione al padre, marito, compagno. E poi, di isteria, di frigidità, della resistenza muta del corpo. E dell’invidia, della dipendenza, del masochismo. Ci serviamo della parola in quanto gesto di libertà per uscire dall’impressione costante di fallimento. “Ho sbagliato; ho rinunciato; mi sono sacrificata; avrei voluto; mi sarebbe piaciuto…“
La necessità di non rimuovere la sessualità a volte sfiora l’impudicizia. Stare insieme, tra sorelle di sesso, per svelare i lati più reconditi di noi stesse è una scoperta. Come tutte le scoperte ha pure le sue magagne. L’ondata di facili confessioni, la marea di racconti lacrimosi. Oscilliamo tra vittimismo e sensi di colpa. Siamo istintive, ingenue, ma quella pratica del lavorare su di sé porta alla luce ciò che fino a quel momento era stato innominabile. Gli conferisce dignità.
“Nella pratica del piccolo gruppo di autocoscienza (sempre da un “Sottosopra“), dopo un inizio molto bello, ci siamo accorte che anche al suo interno si creavano ruoli di potere, proiezioni madre-figlia e tutto un intersecarsi di dinamiche di gruppo che di fatto ci impedivano di andare avanti, in quanto ormai nessuna di noi riusciva più a entrare in rapporto reale con le altre. (Ognuna di noi era diventata l’attaccapanni delle proiezioni altrui e il tutto avveniva nella reciproca complicità)“.
Sono tanti i difetti che affiorano dall’autocoscienza. Però non la spregiudicatezza. Non ci è mai piaciuta, almeno a noi che scriviamo, la filiera sesso-denaro-potere, una weltanschaung dura a morire e che oggi miete vittime non solo per via dell’uso che la televisione fa del corpo femminile.
In sintesi, i piccoli gruppi di autocoscienza hanno durata breve. Per noia, perché esauriscono la propria forza. Sono stati, comunque, un passo necessario, preliminare a tutto il resto. Dopo, nessuna rinnegherà più il vissuto personale.
Appunto, e dopo? Mica ci fermiamo alla presa di coscienza. L’idea di una esistenza libera appena intravista ci appare troppo importante per ricacciarla sotto il tappeto. Procediamo per tentativi. Pasticciamo un po’ con “la pratica dell’inconscio“. Ovvero con la scommessa di “tradurre nel movimento il rapporto analitico“. A Roma, per quel che ricordiamo, ci si chiude una volta alla settimana in un negozio di vestiti a fiorellini per ragazze zoccolanti di via della Pace. Gli uomini – i nostri uomini – aspettano fuori che abbiamo finito.
Finito cosa? Di rompere quel silenzio, lunghissimo (durata da tre a dieci minuti) che segna l’inizio della riunione. Chi lo rompe per prendere la parola si considera un’eroina. Ma sull’aggressività nei confronti della figura femminile, sulla domanda di conferma da parte delle altre, si continua a tacere.
Per di più il femminismo vuole disperatamente mantenere una solidarietà affettiva del tipo: “Siamo tutte donne; non possiamo scontrarci come fanno i maschi”. Evitare i conflitti, i contrasti, a costo di negare i rapporti di potere, le richieste d’amore, la paura dell’abbandono. Nessuna diversità, opinione eterodossa, in contraddizione con il movimento è permessa. Ci stiamo trasformando in un popolo di madri soffocanti? Ogni critica, obiezione, contrasto, suonano come tradimento.
La “pratica dell’inconscio“ sta scivolando nelle interpretazioni selvagge. Molte di noi scelgono di andare in analisi. Se Freud, “maestro del sospetto“, aveva puntato sulla relazione con l’analista per il lavoro su di sé dell’analizzato, nell’autocoscienza ci è accaduto di nominare il legame tra corpo e mente, vita affettiva e sessualità: dunque parliamo dell’aborto, della nascita.
Ancora Carla Lonzi: “Durante una campagna per l’abolizione del reato di aborto mi sono chiesta: è più da schiave soggiacere all’aborto clandestino o al fatto di rimanere incinte se non si è provato piacere, cioè solo per soddisfare l’uomo? Chi ci ha obbligato a soddisfarlo a nostre spese? Nessuno. Lì siamo vittime incoscienti ma volontarie “.
La maternità la viviamo contemporaneamente come motivo di oppressione ma anche di sopravvivenza e di realizzazione. Ci è successo di proseguire una gravidanza ma anche di decidere di interromperla. “Il desiderio di non desiderare l’aborto“ (sempre da un numero di “Sottosopra“) abita anch’esso nella coscienza femminile. E l’autocoscienza ci ha aiutate a menzionarlo.
Noi una coscienza sappiamo di averla. Discutiamo con lei. La interroghiamo. Ci azzuffiamo rispetto alle scelte, da quelle cretine a quelle grandi. Per sbrogliarci e trovare la strada, facendo quello che possiamo, senza titanismi. Senza reclamare quel paravento della libertà di coscienza che ci servirebbe a poco in un campo nel quale è coinvolto il corpo femminile. Meglio usare la moderazione in questo campo.
E qui si apre l’interrogativo: in quale rapporto sta la coscienza con la libertà?
“O dunque, hai dimenticato che la pace e magari la morte sono all’uomo più care della libera scelta nella conoscenza del bene e del male? Non c’è nulla di più ammaliante per l’uomo che la libertà della propria coscienza“ conclude il Grande Inquisitore quando spiega in lungo e in largo che gli uomini sono contenti se qualcuno gli garantisce il pane accompagnato da una illusione universale purché rinuncino alla libertà.
La libertà va soggiogata “al fine di render gli uomini felici“.
A noi sembra di possedere una diversa idea della libertà. Meno estrema, meno ultimativa. Quando decido che il mio bambino lo porterò nel mondo, so che dovrò separarmene: lasciarlo andare dopo il tempo della dipendenza. Un tempo nel quale non siamo uguali, io e lui, ma lui ha bisogno di me e della sapienza relazionale che io possiedo, in uno scambio tra bisogno e cura, attenzione, protezione.
D’altronde, la prima relazione tra il bambino e la civiltà, capace di sottrarsi al dominio del mercato, è con una donna, sua madre. Anche questo rapporto è radicato nel corpo femminile. E nella nostra coscienza.
Secondo qualcuno la coscienza si traduce nella presenza di Dio nell’uomo. Oggi, nel dibattito politico sulla laicità si porta molto una geometrica tripartizione tra credenti, non credenti, diversamente credenti. Curiosa davvero questa tripartizione. Quasi che, per ogni essere umano non sia presente, anche e soprattutto, la possibilità di aprirsi a esperienze spirituali. Sì, una spiritualità che si arricchisce nella relazione con l’altro e che è compatibile con la nostra finitezza.
“Quando le relazioni umane cambiano, cambia nello stesso tempo la religione, il comportamento, la politica e la letteratura“ osservava Virginia Woolf. Sarebbe bello, tuttavia i comportamenti maschili non sembrano particolarmente diversi da quelli di sempre e gli uomini sembrano piuttosto silenziosi quando vengono interrogati sul dire di sé e della propria sessualità. Afonia maschile? Per quanto ci riguarda, facciamo, appunto, quello che possiamo perché avvenga una modificazione nel rapporto con la realtà. Fu proprio un piccolo gruppo di autocoscienza a insegnarci che non saremmo riuscite a padroneggiare tutto. Ma comportò anche la scoperta che necessità, dipendenza, affetto, amore, non sono solo “roba da donne“.