Abbiamo cominciato a riunirci il mercoledì, prima della caduta del governo Prodi, quando non era ancora del tutto implosa la politica dei partiti della sinistra. Avvertivamo tutte, al di là delle diverse esperienze e del diverso coinvolgimento in quella vicenda, il bisogno di uno scambio su quello che da tempo ci sembrava evidente: una perdita di senso e di funzione della sinistra, all’interno di una più generale crisi della politica. Una perdita forse irrimediabile. Che si manifestava nella ripetizione di tutti i vizi che l’hanno portata allo schianto elettorale, dalle pratiche asfittiche ed autoreferenziali, all’ abuso di parole troppo lise per comunicare e convincere . A questa situazione abbiamo guardato con “attenzione amorevole”.
Aver visto prima il vuoto di pensiero e la distanza dall’esperienza, averne scritto e parlato in testi ed incontri, non ci ha reso più allegre, forse più lucide. Non ci ha evitato, comunque, di girare a vuoto anche noi. Finché ne abbiamo parlato a partire dalle cronache politiche, o perfino dai percorsi di alcune di noi all’interno di questa o quella organizzazione. Discussioni anche interessanti, ma che non ci appassionavano.
Poi è accaduto uno scarto. Siamo ri-partite da quello che stava accadendo ad alcune di noi: l’ invecchiamento, le malattie, la fine di persone care. Abbiamo tutte esperienza del peso e della sofferenza che può suscitare la fine della vita. E abbiamo bisogno di dare parola a questa esperienza. A cosa accade ai corpi nel morire. Forte bisogno, comune, anche se in modi e per motivi diversi. Ci siamo chieste se vi sono modi di accompagnare chi ci è caro, o di essere noi stesse accompagnate, ad “una buona fine”. Forse no. Ma anche se la fine non può essere buona, bisogna assumerla comunque. E’ un modo di riconoscere la finitezza, il limite, l’usura del corpo.
Restano – non è una consolazione ma una eredità – le relazioni. La politica delle donne di questo parla. E’ questo il filo di continuità tra il nostro gruppo e il femminismo. E’ sulla possibilità di mettere le relazioni al centro della politica che vogliamo lavorare, creare incontri e scambi con uomini e donne.
“Questo gruppo, ha scritto una di noi, insieme ad un mio personale percorso di riflessione, mi ha dato più pazienza e più fiducia nello stare in questa sospensione, per recuperare piano, più che il fare compulsivo, uno stare nel presente, con tutti i limiti, ma comunque stare, nel sostenere e partecipare di uno scambio con le altre e con la realtà, che restituisce fiducia a se stesse e dà fiducia al pensare e fare comune, un fare che ha un valore in sé prima che negli obiettivi da raggiungere, che perlomeno, “sopporta” anche il “negativo” inteso in senso fotografico come pellicola ancora da sviluppare”.
La questione politica della fine della vita
Questo ha suscitato in noi un coinvolgimento vivo sulla questione politica della fine della vita. Da mesi presente nelle cronache di giornali e istituzioni sul cosidetto “caso Englaro”. Che abbiamo però sottratto alla complicata e astratta discussione bioetica, su legge o no, su chi decide, su cos’è accanimento terapeutico, cosa terapia, cosa vita, quando si è morti o no, ecc, ecc.
La legge ci sembra un modo solo per coprire un vuoto di senso, e, al contempo, esorcizzare la paura della morte. Tenere in vita Eluana, ad ogni costo, sarebbe stato un modo per negare non tanto la morte, ma la perdita di senso che questi nuovi modi di morire, queste inedite condizioni dei corpi, ci presentano.
Nel corso di due generazioni si è allungata di un paio di decenni la speranza di vita e la scienza promette di allungarla ancora. Le tecniche fecondano e conservano embrioni, combinano e sostituiscano organi, producono la vita vegetativa. Sono nuove possibilità, nuove condizioni dei corpi, nuove forme di biopotere. Alimentate tutte dalla paura della morte, dalla promessa se non di sconfiggerla,almeno di allontanarla.
Ma così si perde la capacità di vivere e dare senso non solo alla morte, ma alla fine. Nella quotidianità, nei cambiamenti dei corpi e nelle relazioni. Delle singole vite, come delle esperienze. Dei corpi, come delle forme di vita collettiva. E’ sempre più difficile saper convivere con la morte. E saper quindi compiere quel mutamento esistenziale che ogni fine, a noi vicina, comporta. E sempre meno accettiamo di fare esperienza del lutto, della necessità di prendere congedo. Di attraversare il dolore che ogni cesura, tanto più se inevitabile, comporta. La morte da esperienza individuale si trasforma così in un rimosso della coscienza collettiva. Lavorare su quel rimosso è una parte essenziale della politica, perché è essenziale per la convivenza.
Sui corpi si esercita da sempre potere.
Il potere ha tante facce. Da quella della sovranità politica, a quella dell’intervento tecnologico, a quella del controllo e disciplinamento , a quella dell’autorità del sapere, religioso o scientifico. Le norme e regole sono sempre più dettagliate ed invasive. Modellano, o pretendono di farlo, non solo scelte e comportamenti, ma emozioni e sentimenti, l’immagine e la carne di cui i corpi sono fatti. Il corpo è oggetto privilegiato della contemporaneità: da tenere sotto controllo, addomesticare, subordinare, sfruttare, mettere a valore nell’organizzazione sociale ed economica; da scandagliare, sezionare, scrutare, definire, regolare nella vita individuale. Il corpo biologico, il corpo-natura è da sempre femminile. Innanzitutto, aborto e procreazione artificiale. Ma anche stupro e violenza sessuale. Il corpo è il banco di prova e misura dell’esercizio di un potere invasivo sulle vite degli altri, di un parossismo ideologico a disporre della vita, trafugando i corpi, violando principi costituzionali e sentenze, crocefiggendo i sentimenti più intimi delle persone in nome della “difesa della vita”. Di nuovo la difesa della vita si afferma contro le vite.
Gli ottocentomila morti per fame ogni giorno, il milione e mezzo di bambini che muoiono ogni anno di morbillo, quelli uccisi dall’AIDS, quelli che scompaiono durante le lunghe e inumane migrazioni, i morti per le guerre, le vittime per la violenza. Per noi non sono solo numeri, sebbene impressionanti. “Resti”, senza voce e senza volto. Spesso l’affermazione della propria vita è fatta sulla vita altrui. Quella del proprio stile di vita contro gli altri stili di vita.
Dalla fine del corpo alla fine della sinistra
Dal bisogno di nominare la fine dei corpi, abbiamo preso consapevolezza del bisogno, altrettanto forte, di nominare la fine nella politica. Senza produrre analogie o addirittura assimilazioni schematiche. Sarebbe anche questo un modo di mettere un tappo al vuoto di senso. Il rinvio dal corpo alla politica, dal fine vita alla fine di forme della politica è stato repentino. Ci ha fatto capire perché giravamo a vuoto. Senza afferrare il nesso tra la nostra esperienza viva di politica ed il discorso politico e sulla politica. Perché anche noi restavamo incagliate nel “discorso ” pre- costituito che è quello pubblico, dei giornali e delle sedi politiche. Un effluvio di parole che assorda senza riempire il vuoto di senso. Proprio come nel discorso della bioetica, attorno al corpo di Eluana.
Nella politica delle donne abbiamo sempre cercato di tenere insieme politica e vita. Mettendo in luce i nessi non solo sul piano dell’esperienza, ma su quello simbolico. Riattraversare la fine può rivelarsi così una sorta di educazione sentimentale. Un’educazione al dolore, alla rabbia, al coraggio. Sono sentimenti che accomunano l’una e l’altra fine. Dolore e rabbia per l’impotenza che la fine costringe a vivere. Coraggio necessario a riconoscerla, a trarne misura nel fare e nel pensiero.
Di pensiero sulla fine abbiamo bisogno per guardare con dolore e senso di responsabilità, come si fa con il corpo amato, a quel sedimento di idee e di storie della sinistra, che è oggi segnato dalla fine. Per non restare imprigionati/e nella conservazione. E, viceversa, saper metterne a frutto la ricchezza, separandosi da ciò che è finito, compiuto definitivamente.
Se si vuole ricominciare
Non è automatico ricominciare, non sempre è possibile, ma se si ha voglia di ricominciare bisogna congedarsi, per evitare gli ingombri che ci impediscono di vedere e capire il presente (dimensione spaziale) o ci costringono alla rapidità vuota e illusoria della serie fine- nuovi inizi (dimensione temporale). Per noi nominare la fine è un modo per non restare bloccate nella sua morsa, per sottrarsi alla ripetizione, e non affidarsi all’illusione del nuovo inizio (anche questo un rito ripetuto) del fare, guardando sempre avanti, in positivo.
Come se non ci fossero lutti e perdite. Ma anche resistenze, attaccamenti che tolgono libertà, vincolano rispetto all’inedito che la fine porta con sé. E che sgomenta più della perdita
Succede invece che l’incapacità di pensare le cose che finiscono, determina, come abbiamo detto, da un lato l’accanimento terapeutico e dall’altro l’esercizio di potere su una politica sfarinata.
La crisi della politica mima le crisi del corpo fisico. Conosce l’alternarsi di bulimia e anoressia: eccesso di parole, di concetti, di invenzioni verbali e disseccamento delle radici sociali, delle pratiche comunicative, degli scambi di senso e di riconoscimento. Cupio dissolvi e vocazione suicidaria nella riproposizione all’infinito dei modi e delle logiche che hanno portato al disastro. Accanimento terapeutico diretto a rinverdire simboli e riferimenti ormai in declino, che hanno dato un giorno forza all’impresa e che si spera possano tornare a essere quello che sono stati.
Nel femminismo abbiamo tempestivamente visto e nominato i danni del prometeismo. Di quel peculiare accanimento maschile che li spinge a tenere in vita vegetativa imprese collettive. Le istituzioni, le prassi, i codici di una politica non più viva, non più feconda. Perché non nutre le esperienze, non le cambia, non offre significato.
Gli uomini fanno fatica a prendere le distanze dalle organizzazioni – partiti, gruppi, associazioni- che hanno costruito. Non riescono a separarsene. L’ansia per il declino di un partito si traduce nell’invocare un laeder, così come la laedership dovrebbe supplire alla crisi dell’ autorità patriarcale. Nella realtà i gruppi dirigenti maschili, a sinistra soprattutto, non solo non hanno autorità, ma sono un ostacolo per affrontarla: occupano quella funzione, ma non la incarnano.
Nell’infinita transizione italiana è tutto un fare e disfare partiti, coalizioni, sistemi elettorali. Un chiudere ed aprire fasi e cicli senza mai fermarsi a prendere atto di ciò che è davvero finito, morto, dentro questo inesausto adoperarsi per dar vita al nuovo. Ed è malamente morto, senza ottenere degna sepoltura, anche a causa di questo accanimento.
Non è forse vero che in tal modo è stata sottratta a molti e molte la perdita? Che non riescono ad assumerne consapevolezza? Di conseguenza non sanno più di cosa patiscono la mancanza, di cosa hanno desiderio o bisogno e di cosa possono invece fare a meno?
Si può accettare il vuoto e l’impotenza. Fa soffrire. Ma questo può essere, una condizione attiva, non solo passiva. Patire è radice di passione. Attiva desiderio. Muove dall’impotenza che avvertiamo verso… un bisogno di dare senso a quel patire, prima ancora che verso qualcosa che lo risolve. (Come se, di nuovo, il movimento fosse solo e sempre da negativo a positivo). Ma non bisogna avere fretta di colmare il vuoto, di azzerare la sofferenza con la rimozione.
Ignorare la fine ci fa perdere l’opportunità di portare con noi ciò che è importante di questa fine e che probabilmente ci sarebbe utile per ricominciare.
La democrazia a rischio
Democrazia è una parola a rischio. Per la sua intrinseca ambivalenza. Come sistema politico ha fatto spazio alle differenze, alla pluralità delle esperienze e dei punti di vista. Come forma del potere politico si è costituita come luogo terzo rispetto alle differenti posizioni, ai partiti, ai conflitti, alle soggettività. Nessuno, né individuo né gruppo può coincidere con il potere democratico, identificarsi con esso, incarnarne l’autorità, il punto di vista. Sta qui un vero e proprio ribaltamento: dal doppio corpo del re al vuoto di corpi, di soggetti incarnati. Dall’autorità del sovrano che è “sopra la legge” (come tale garantisce l’ordine, non solo sociale, mondano, ma simbolico, trascendente) al potere e alle funzioni dei governanti. Che possono essere arbitrari e autoritari ma non per questo sono meno provvisori. Anche per i governati, noi singoli e singole la democrazia è parola ambivalente. A rischio. Per un verso abbiamo potere su noi stessi, è la libertà individuale, garantita come diritti. Per altro verso ognuno deve vedersela da sé, sta per conto suo, ha i fatti suoi. La democrazia insomma, come luogo terzo rende più difficile mettere al centro della politica e della vita le relazioni. Questo produce un ricorso ossessivo alla legge. Ci si appella alla legge per paura delle relazioni, come se la legge potesse colmare il vuoto di legami, l’assenza di una dimensione condivisa nell’ esistenza e nel pensiero.
Vorremmo ripensare la democrazia, non come luogo terzo, non come potere neutro del decisore, ma come convivenza tra differenti, spazio di relazioni e mediazioni, del loro intrecciarsi con l’agire collettivo
Spesso nei gruppi politici si verifica uno slittamento dalla politica dell’esperienza ( con i suoi bisogni, con i corpi, le condizioni di dipendenza, i desideri, le aspirazioni, i legami e le relazioni) alla politica dell’immaginario ( soluzioni tecnologiche, norme, rituali organizzativi, delega alle istituzioni e ai laeder, appello alla legge).
Questo accade quando non vi è consapevolezza che anche le istituzioni umane, tutto ciò che è costruito è contingente, finito. La sinistra ha affrontato il suo declino come se fosse, per natura, necessaria, insostituibile. Hanno preso il sopravvento la rimozione e l’ attaccamento. L’una o l’altro, o meglio miscele, diverse, tra i due. Attaccamento come ripetizione, inconsapevole per lo più, del passato, rappresentazione mitica di ciò che è stato, suo ritorno parodistico, diffuso affidarsi ai meccanismi e ai dispositivi sperimentati. Soprattutto c’è stato un uso del sentimento affettivo diffuso, del senso comune e della tradizione. Rimozione come rito dell’innovazione, ricorso al lifting piuttosto che costruzione di un altro ordine di senso e di esperienza.
Il coraggio di finire
Non vediamo modo di ricominciare se non si ha il coraggio di finire. Di nuovo c’è un nesso con la questione del fine vita. Con il modo in cui è stata malamente rappresentata nella vicenda Englaro.
In questi anni le donne hanno chiuso diverse esperienze, diversi gruppi, associazioni. Da Emily ad A/Matrix, a Balena. Prima era avvenuto con lo scioglimento dell’Udi, con la chisura di “Reti”, con l’esaurirsi del “centro Virginia Woolf”. Sono quelle che conosciamo più da vicino. Gli uomini invece se chiudono un esperienza, fanno finire un partito o un gruppo e per rifarlo. Magari per moltiplicarlo, dividendosi in due o tre sotto-gruppi. Forse perché il significato della parola “fine” si intreccia troppo con quello di “fallimento”. Forse perché hanno paura di invecchiare – anche noi, ma diversamente da loro – e provano a mantenersi giovani, ripetendo il rito del nuovo inizio. Come nella vita, cambiano partner
Noi vorremo comunicare con loro, su cosa vuol dire avere coraggio di finire. Mantenendo vive, ed allargando, le relazioni che abbiamo.