Ha già scritto per questo sito Monica Luongo. L’argomento è serio. Le conclusioni di Monica mi hanno lasciata un po’ incerta. Provo dunque a spiegarmi. Secondo me, la discussione sull’età nella quale le donne dovrebbero andare in pensione sarebbe importante se non fosse attraversata da un insopportabile pathos decisionista. Questo pathos inzuppa un obiettivo: equiparazione tra donne e uomini, al quale mostrano di credere il ministro alla Funzione pubblica Renato Brunetta e poi, tra gli altri, Linda Lanzillotta (ministro-ombra del Pd), Vittoria Franco (altro ministro-ombra del Pd), Walter Veltroni (segretario dello stesso Pd). Benché, nella minoranza, quel “liberare le donne“ promesso dal ministro in carica, viene preceduto, accompagnato, seguito da un grande numero di “purché“, “ma anche“, “tuttavia“.
Pareggiare i due sessi non rappresenta certo un’idea nuova. Ha provocato brividi di eccitamento lungo la schiena degli addetti (quasi sempre addette) ai ministeri, assessorati, commissioni alle Pari Opportunità. Di nuovo però c’è un cambiamento femminile che ha modificato la famiglia, il rapporto tra i sessi, la società.
Cambiamento che commentatori, giornalisti, intellettuali, politici, colgono con difficoltà. Se la Costituzione dice: “senza distinzione di sesso“, nella traduzione alla buona, le donne sarebbero tali e quali ai maschi. Si intende, quando fa comodo, come nel caso dell’innalzamento dell’età pensionabile.
Partiamo dall’esperienza di una lei che ha avuto due figli. Li ha cresciuti. Si è occupata del posto dei calzini di lui. Nel frattempo ha lavorato come libera professionista antipatizzando con i signori spendi-e-spandi, solidarizzando con chi ha meno. Ha pure badato e curato le relazioni famigliari, affettive, amicali. Si è autorizzata a leggere dei romanzi, andare al cinema, visitare mostre. Secondo le statistiche sono piaceri che noi femmine – libere professioniste, impiegate e operaie, orario di lavoro permettendo – pratichiamo in numero maggiore dei maschi.
Vita e vite da funambole. Senza contare le grandi difficoltà nel percorso lavorativo che tante incontrano; il divario negli stipendi (pay gap), le discriminazioni nel profilo di carriera, la pensione più bassa. E la pesantezza di molti lavori dei quali poco si discute. Allora, perché lei dovrebbe diventare adesso – che non è più giovane e che le diseguaglianze le ha penate prima – pari agli uomini?
Su questo vorrei continuare a interrogare Emma Bonino (sua l’iniziale proposta di abolire il “bonus“ di cinque anni) che non è una nemica delle donne. E non ha mai avuto un debole per quote e pari opportunità.
Bonino sa che ogni funambola ha un corpo. Anche senza interpellare i Dr. House della terza età balza agli occhi il dato che, biologicamente, l’andropausa non somiglia affatto alla menopausa. La stanchezza dell’uno va distinta dal logoramento dell’altra. Ne hanno scritto molti libri (dai Quaderni di Via Dogana come“Lavoro e maternità, il doppio sì, esperienze e innovazioni” ai testi di Bianca Beccalli o di Laura Balbo) riportando le narrazione che le donne fanno del loro corpo al lavoro dove portano tutto, sentimenti compresi. Guarda caso, Adam Smith, padre della “mano invisibile“ che regola i mercati, stilò una teoria morale dei sentimenti.
La differenza femminile sta in questa lacerazione e insieme desiderio affinché la maternità e lavoro non siano più i due elementi di una opposizione. A me pare una contraddizione feconda se significa rifiuto a considerare la maternità in una pura logica dei costi e minore adesione alla mistica (maschile) del lavoro. Se la contraddizione si traduce in un limite all’alienazione.
“L’identificazione del lavoro con quello pagato è storicamente una invenzione dei maschi“ (Zygmunt Bauman). Ma la classe operaia ha subito una terribile sconfitta, l’operaio massa è scomparso, il lavoratore vive una condizione di estrema solitudine. Progettare la maternità nell’epoca di san Precario cioè di quell’ “emergenza etico-sociale“, citata dal Pontefice, è una sfida difficile. Eppure le donne hanno familiarità con i tempi del lavoro postfordista. Lasciare aperto l’ambito di manovra tra relazioni personali e relazioni imposte dal mercato, può disegnare dei rapporti nei quali non ci si consegna interamente alla misura del denaro e allo schema competitivo.
Le donne sono più istruite, capaci, determinate. La loro differenza mette in campo quel “di più“ che hanno e danno alla società. L’hanno scritto Ida Dominijanni sul “manifesto“ e Flavia Perina sul “Secolo d’Italia“.
Per rispondere all’invito rivolto all’Italia dalla Corte di Giustizia europea (che non è mica l’oracolo di Delfi e non sempre ci imbrocca), probabilmente si arriverà a una “graduale armonizzazione“ dell’età in cui maschi e femmine vanno in pensione. Se verba sunt consequentia rerum, vorrà dire che si è rinunciato all’impossibile impresa di “equiparare“ maschi e femmine. Ma sulla differenza dei sessi vale la pena di continuare a ragionare. Non sto affatto difendendo un “tabù femminista“ e spero di riuscire a staccarmi dal “cielo delle ideologie“. Invito, semplicemente, a prestare attenzione alle donne. Forse anche per gli uomini potrebbero aprirsi nuovi modi di guardare alla vita, al lavoro senza negare le ineludibili differenze di ogni essere umano. E tra maschi e femmine.