“Si tratta di una nascita, come sempre dovrebbero essere le nascite, quella di un bambino atteso con amore e rispetto, che porta in sé la speranza del mondo.” Così Marguerite Yourcenar nella Glossa di Natale (contenuta nella raccolta di piccoli saggi Il Tempo, grande scultore, Einaudi) in cui ricostruiva la portata universale della Natività e spiegava perché anche lei – “non cristiana nel senso pieno del termine” – sentiva il bisogno di onorare la ricorrenza. Perché è la festa di tutti: dei bambini, delle madri e dei padri, dei poveri pastori intenti alle pecore e al formaggio, delle donne povere che assistono al parto, degli animali che partecipano all’evento, dei ricchi re che arrivano a cavallo con i doni. Dunque: il Natale appartiene all’intera comunità umana: “una festa della gioia, ma anche adombrata di patetico, perché il bimbo che si adora sarà un giorno l’Uomo dei Dolori”, concludeva la scrittrice.
Nella vita accade lo stesso. Nascita e morte, gioia e dolore si alternano nella comunità umana brulicante di individui diversi, opposti, conflittuali anche rispetto alla festa in questione. C’è chi l’ama e la vive serenamente e chi la detesta e la subisce; chi ne critica la deriva consumista e rimpiange i natali semplici di una volta ma si adegua per conformismo o per non scontentare il parentado; chi non aspetta altro che arrivi il tempo del faticosissimo shopping per ringaluzzire; chi parte per le vacanze-di-natale tali e quali a quelle dei film italiani che tanto piacciono al pubblico; chi parte per mete affatto turistiche e pecorecce; chi ha fede e non manca la messa di mezzanotte per pregare; chi non sa neanche cosa vuol dire pregare ma mette la televisione a tutto volume quando trasmette la Messa Solenne da San Pietro; chi odia familiari e parenti ma non riesce a non presidiare il Cenone proprio per farsi venire il sangue acido; chi si diverte un mondo a ingozzarsi di leccornie e baccano con seguito di tombola che dura tre ore; chi si bea di avere accanto la persona amata da baciare sotto al vischio e chi soffre per la sua mancanza… Poi c’è il Natale dei malati, dei poveri, dei militari, dei carcerati, dei soli senza rimedio. Il campionario natalizio è smisurato e poiché la festa è di tutti e di ciascuno, ognuno ha il suoi romanzo di Natale da raccontare, il film della propria vita da ricostruire attraverso i ricordi di una data fortemente simbolica.
Quando ero adolescente eravamo sul finire degli anni Cinquanta del secolo scorso. La mia famiglia (mamma, papà e due sorelle) era da poco riunita e risistemata dopo i lunghi postumi del dopoguerra. Mio padre, direttore di una fabbrica a partecipazione statale, era stato epurato dal Comitato di Liberazione Nazionale e, malgrado il 1948, c’era voluto ancora tempo prima di essere reintegrato al suo posto. Finalmente avevamo una bella casa e eravamo tornati benestanti. L’abete era vero, ogni anno più alto e più ricco con le decorazioni e la neve di vetro. La cena della Vigilia era organizzata da mamma secondo l’ultima moda detta “all’americana”, in piedi. Sul buffet comparivano cibi sofisticati accanto alle specialità napoletane cui papà teneva molto. La nostra era una festa areligiosa e non propriamente familiare perché i parenti abitavano altrove. Radunava piuttosto le famiglie amiche dei nostri genitori con corredo di figli che erano amici di noi figlie. Tutti in ghingheri. Ricordo mia madre con un vestito di crespo marrone scurissimo dal colletto di pizzo ocra. Il grammofono suonava White Christmas di Perry Como. Ma dopo la cena si ballava con Elvis Presley e Little Richard imposti da noi ragazzi, mentre i grandi si rintanavano nel tinello a farsi una telesina o un baccarat. Lo scambio dei regali, molto dopo mezzanotte, rappresentava l’ultimo putiferio. Eravamo felici. Poi, nel 1960, è morto mio padre. Tutto è finito. Ma per ricominciare, anche se in un modo tutto diverso.
Le mie vicende natalizie sono state le più curiose e le più estreme. Il Natale femminista è stato uno dei più divertenti, sul finire dei Settanta. Si dava per la prima volta, in Italia, l’adunata delle lesbiche che rivendicavano una loro posizione specifica nel femminismo. Iniziava il 25 alle due del pomeriggio proprio per rimarcare il distacco dai “normali”, pronti al pranzo con cappelletti in brodo e cappone. Con una amica tuttora carissima, che era tra le organizzatrici, schizzammo in 500 fino a Arezzo per passare la Vigilia con i di lei genitori che alla loro figliola ci tenevano moltissimo: pollo funghi patate e zucchine fritte, alla toscana. La mattina dopo via a macinare di nuovo chilometri di autostrada per arrivare in tempo. Fare le militanti, talvolta, era bellissimo. Bello fu anche servire il pranzo di Natale alla Comunità di Sant’Egidio. Non fu un’idea mia, confesso, ma di un amico convinto che partecipare alla sua buona azione annuale mi avrebbe fatto bene al cuore. Aveva ragione. Bella, bellissima, la messa di mezzanotte con presepe vivente: gli angioletti che si addormentavano, l’asinello che si indisponeva, le pecore che scacazzavano, la madonna col manto blu che dopo la cerimonia, sul sagrato, si fumava una sigaretta. Surreale. Il tutto in un paesino arrampicato sui monti reatini sotto la neve. C’erano mia madre, l’uomo con cui ho vissuto a lungo e i suoi genitori che abitavano lì. Sì, la mia mamma: specialmente negli ultimi anni della sua vita, è stata il punto fermo di tanti natali. Li passavamo da una delle mie sorelle. La defezione era vietata. Dopo che è morta con la famiglia residua abbiamo deciso di continuare il rito. Mi aspetta anche quest’anno.
Se vi rimane tempo e spazio per un ultimo regalo, magari a voi stessi, vi consiglio Racconti di Natale curato da Nico Orengo per Einaudi. E’ una splendida raccolta di eccellenti autori di tutti i tempi, tra i quali spicca – a mio parere – Giovannino Guareschi con “La favola di Natale”. Marito e moglie festeggiano la Vigilia in modo casalingo, serviti dalla fida domestica. Alla fine della cena costei si rifiuta di sparecchiare completamente sostenendo che durante la notte le anime dei morti sarebbero arrivate attratte dal pane avanzato. La mattina dopo lei lo avrebbe raccolto e conservato sicura che mai si sarebbe ammuffito. Moglie e marito restano al tavolo da pranzo e si addormentano, lei profondamente, lui avvolto nella nube del dormiveglia. Vede arrivare le anime di nonno zia cugina eccetera, che si siedono a tavola. Le osserva passarsi l’un con l’altro il pane, lasciandolo però intatto. All’alba se ne vanno.
Il Natale è la festa anche dei nostri morti.