Una nuova sinistra, capace di radicarsi nella realtà, di farsi comprendere e di tornare a agire politicamente, deve ripartire dalla situazione del mondo. Da quella che oggi viene chiamata “globalizzazione”. Del resto quando la sinistra è stata forte nella storia, lo è stata sempre sulla base di una maggiore capacità di comprensione della situazione mondiale.
Quando Jacques Derrida, qualche anno dopo l’89, scrisse “Spettri di Marx”, cogliendo tempestivamente l’esigenza di continuare a raccogliere col metodo della decostruzione l’eredità critica del marxismo, proprio quando veniva dato definitivamente per morto, indicava provocatoriamente anche l’esigenza di una “nuova Internazionale” (((Nota 1))). Dobbiamo ascoltare il filosofo.
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Dunque il punto di partenza è il giudizio che si da della “globalizzazione”. E con essa del capitalismo contemporaneo. Mentre scrivo si rincorrono i commenti sull’ultimo mega-salvataggio pubblico deciso negli Usa verso i colossi del credito immobiliare Freddie Mac e Fannie Mae, Così come sugli effetti inquietanti del fallimento della banca Lehman Brothers. La crisi dei mutui subprime emersa un anno fa e l’esplosione della “bolla” immobiliare gonfiatasi soprattutto negli Usa non ha ancora finito di produrre movimenti tellurici nelle economie di tutto il mondo. Cifre fantastiche sono state investite dalle banche centrali dell’Occidente e dai governi di Inghilterra e America per immettere liquidità nel sistema finanziario internazionale e per soccorrere gli istituti di credito sull’orlo della bancarotta. Si tratta – cosa di cui si parla meno – di un dramma sociale che riguarda centinaia di migliaia di persone che perdono o rischiano di perdere i loro risparmi e la casa e, soprattutto nel settore del credito, anche il posto di lavoro.
Da sinistra, ma anche da destra – non passa giorno che sui giornali italiani non venga citato il libro di Giulio Tremonti (((Nota 2)))– si parla del “fallimento” della globalizzazione, del liberismo, o se si preferisce del “mercatismo”. Confesso che guardo con una certa inquietudine questa sorta di convergenza nel descrivere tutti i mali della “globalizzazione”. Certamente sarebbe necessario un governo internazionale della globalizzazione molto più efficace, e questo non può avvenire “da sinistra” se non attraverso una critica radicale del “modello” sociale che la vittoria del capitalismo ha imposto a tutto il mondo. Ma, appunto, l’orientamento e la direzione di questa critica sono decisivi, e non mi pare che la bussola a sinistra sia stata ancora trovata.
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Certamente non può essere la bussola della destra a orientare la sinistra. Per questo ho trovato poco fondati i molti riconoscimenti che, tanto dalla sinistra radicale che da quella moderata, sono arrivati al testo di Tremonti, che in tutte le sue parti avanza una critica al mercato e alla globalizzazione conservatrice quando non francamente reazionaria. Il motivo conduttore del libro sono le minacce che l’internazionalizzazione dell’economia producono al benessere e alla “civiltà” dell’Europa e dell’occidente, che a suo dire corrono il rischio di un”colonialismo di ritorno”, questa volta esercitato dall’Asia contro l’Europa, e dai rischi di una cancellazione dei “valori” della “nostra civiltà” dovuta a una strana entità mostruosa che sarebbe il prodotto congiunto del mercatismo e del consumismo, una specie di vendetta materialistica dello stesso comunismo!
Le “sette parole d’ordine” che Tremonti propone “per salvarsi dalla crisi globale” sono “valori, famiglia e identità; autorità; ordine; responsabilità; federalismo”. E’ il credo ideologico che viene seguito con determinazione dal governo Berlusconi in materia di ordine pubblico, di scuola, di giustizia ecc. Per Tremonti e per chi lo segue – tra le più attive la ministra dell’istruzione Gelmini – la fonte di tutti i mali per l’Italia contemporanea è stato il ’68, a proposito del quale si pronuncia una condanna in blocco e senza appello. Certo alcune proposte del ministro – dare più potere legislativo al parlamento europeo, definire una politica di investimenti europea per rilanciare lo sviluppo – possono essere anche considerate di buon senso. Ma il suo richiamo a un’Europa delle “piccole patrie”, ai legami di identità che si fondano sul territorio (in funzione di raccordo con la Lega di Bossi), disegnano contenuti valoriali della politica profondamente conservatori, e a mio avviso perfettamente coerenti con il suo discorso polemico verso la corsa all’apertura dei mercati che si è verificata negli ultimi vent’anni.
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Molto più stimolante – su un piano evidentemente diverso e enormemente più ricco – il complesso di giudizi sulla “globalizzazione” formulato nell’autobiografia di Alan Greenspan (((Nota 3))). Un repubblicano liberista che è stato capo dei consulenti economici della Casa Bianca dal ’74 al ’77, durante l’amministrazione Ford, e poi presidente della Federal Reserve dal 1987 al 2006, attraversando le presidenze di Reagan, di Bush padre, di Clinton e di Bush figlio. Non pretenderò certo di riassumere un testo di 580 pagine, che per la prima parte è una autobiografia, e che nella seconda parte passa in rassegna tutti i principali problemi del capitalismo contemporaneo: dall’ascesa delle potenze asiatiche, al dramma delle diseguaglianze che vengono prodotte, alla crisi energetica, alla crisi del welfare. Greenspan, anche negli interventi successivi all’uscita del libro, avvenuta nel 2007 proprio alla vigilia dell’esplosione della crisi dei subprime, sembra non perdere la fiducia nelle capacità autoregolative del sistema, di cui si fida molto di più che delle capacità di intervento della politica e dello stato. Ciò non vuol dire non ne veda le contraddizioni interne, o sottovaluti le necessità di regolazione: del resto al vertice della Fed Greenspan non si è certo astenuto dal manovrare la politica monetaria per cercare di mitigare da un lato gli eccessi speculativi o per incentivare i boom che soprattutto negli anni ’90 l’economia americana e buona parte di quella mondiale hanno conosciuto. Con risultati certo oggetto di discussione. Molti lo ritengono anzi il principale responsabile dell’eccessiva creazione di liquidità che ha gonfiato in modo distorto il sistema finanziario. Tremonti si è spinto a dire che per l’America è stato peggio di Bin Laden…
L’ex presidente della Fed ha studiato con passione e cita spesso Adam Smith, Keynes, e naturalmente Milton Friedman, ma soprattutto Schumpeter. Non ha dubbi che lo sviluppo secolare del capitalismo sia stato e resti un fatto progressivo: “L’aumento del benessere materiale – scrive – con un incremento di dieci volte in due secoli del reddito pro capite reale, ha permesso al pianeta di sostenere una crescita di sei volte della popolazione”. Eppure, osserva, i nemici del capitalismo restano molti. Il problema è che “la dinamica che determina il capitalismo, vale a dire la spietata competitività del mercato, si scontra con il desiderio umano di stabilità e certezza”. Soprattutto la certezza di un posto di lavoro. Ma il centro del capitalismo è “la distruzione creativa che, eliminando vecchie tecnologie e vecchi modi di fare le cose per favorirne di nuovi, è l’unico strumento per incrementare la produttività e quindi per aumentare lo standard medio di vita su una base data. Come la storia dimostra, la scoperta di oro, petrolio o altre ricchezze naturali non porta a questo”.
Il mito ideologico di questa visione del capitalismo e del mercato è l’imprenditore “eroico” che troviamo nei romanzi di Ayn Rand (((Nota 4))), che si dice abbiano venduto in America poco meno della Bibbia, tra gli anni ’30 e gli anni ’50. Figure femminili e maschili posseduti da una specie di furore dell’invenzione e della produzione, animati da una visione del mondo per cui solo la libertà di ogni egoismo individuale potrà produrre la libertà e la felicità di tutti. Greenspan riconosce in Ayn Rand una sua maestra, anche se non la segue fino in fondo nell’idea di una società in cui il ruolo dello stato è così minimo da ritenere illecito persino far pagare le tasse.
Tuttavia credo che la sinistra debba fare i conti sia con i successi globali del capitalismo (più che con le sue crisi), sia con le coerenze delle teorie che lo sostengono accompagnandosi a principi saldi sulla libertà personale, sulle dinamiche del desiderio, sullo stato di diritto, e anche sui rischi del predominio della politica sul mercato. Ciò vale per gli errori e gli orrori delle società in cui si è preteso di abolire il mercato, sia – e diversamente – per la tendenza della politica, anche nelle sue forme democratiche, a risolvere i problemi con la violenza e con la guerra (da questo punto di vista Greenspan non si nasconde che la vera motivazione della disastrosa guerra in Iraq era il controllo del petrolio).
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Durante il “regno” di Greenspan si sono avvicendate varie crisi “epocali” del capitalismo. Il crollo di Wall Street del 1987, le “esuberanze irrazionali” – una sua celebre espressione – degli anni ’90, l’esplosione della “bolla” della new economy nel 2000, e poi il grande shock prodotto dall’11 settembre del 2001. E’ stata poi la volta, un anno dopo la fine della sua presidenza alla Fed, della crisi dei subprime. Non è quindi un caso che il suo libro si intitoli all’”età della turbolenza”. Uno degli aspetti più interessanti di questa lettura è il constatare che nemmeno da un punto di osservazione privilegiato come il vertice della Fed le dinamiche del capitalismo finanziarizzato e globalizzato affermatesi negli ultimi decenni risultino perfettamente comprensibili e prevedibili. Le complesse formule matematiche che dovrebbero descriverlo si rivelano spesso fallaci, e forse l’irrazionalità e l’umore volubile del cervello umano, che – attraverso le operazioni gestite di minuto in minuto in tutto il mondo su milioni di computer e in altri milioni di operazioni individuali produttive e commerciali, di scelte di vita come quella di emigrare in un paese più ricco – rimane pur sempre il “pilota” che guida questo complicatissimo e difettoso carroarmato, conta assai di più nel determinare crisi e riprese rispetto ad altri fattori oggettivabili delle grandezze economiche. Nel giro di pochi anni l’andamento “ciclico” dell’economia ha conosciuto una trasformazione assai complessa, frutto dell’innovazione tecnologica e del fallimento delle economie socialiste in Urss e nell’Europa dell’Est. Penso dunque che sia da prendere in considerazione l’idea (((Nota 5))) che tutto sommato quelle a cui assistiamo nel campo dell’economia siano le “crisi normali” di un “mondo nuovo”. Ciò non vuol dire rassegnarsi a questa logica capitalistica, né sottovalutare il rischio che le conseguenze negative della globalizzazione – che si avvertono in questo momento per le classi medie e popolari dei paesi più sviluppati, oltre che di molte parti del mondo più povero – producano fenomeni politici involutivi, nel senso del populismo e di un nuovo autoritarismo, e della guerra, ma individuare risposte politiche che non siano in contraddizione con gli effetti benefici prodotti dalle accelerazioni dell’apertura dei mercati in particolare dopo l’89. ((Nota 6)))
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Del resto era stato il vecchio Marx a pronunciare un discorso assolutamente favorevole – fino al cinismo per le conseguenze sui ceti popolari – al libero scambio, in polemica con i protezionisti della sua epoca. Oggi la rivoluzione capitalistica sembra aver compiuto quasi completamente su scala globale il cammino che nella prima metà dell’800 riguardava solo una parte dell’Europa. La rivoluzione capitalistica è stata accompagnata da una rivoluzione tecnologica e scientifica, da una rivoluzione mediatica, e anche da una rivoluzione antropologica. Una nuova Internazionale è necessaria, e ha bisogno di un nuovo internazionalismo, di un nuovo cosmopolitismo, di un nuovo universalismo. Non bisogna finire mai di riflettere sul fatto che la spinta rivoluzionaria che si era manifestata in tutto il mondo con il ’68 e gli anni ’70 è stata sì sconfitta dalla reazione delle classi dirigenti occidentali (piuttosto aiutate in vario modo da quelle del campo socialista), ma non aveva elaborato sbocchi politici statali realmente alternativi a quelli, che si sono rivelati impraticabili, di tipo sovietico.
Ma fino a che punto gli sbocchi politici che si deve dare una nuova sinistra devono essere necessariamente di tipo statale?
In una pagina di “Spettri di Marx” Derrida cita Freud (((Nota 7))) e la sua idea che il “narcisismo dell’uomo” abbia subito nella storia dell’Occidente tre grandi “colpi”: il trauma cosmologico inferto dalla teoria copernicana, la terra non è più il centro dell’Universo; il trauma biologico aperto dal darwinismo, l’uomo discende dall’animale; il trauma psicologico, il potere dell’inconscio sull’io cosciente, scoperto dalla psicoanalisi. A questi tre “colpi” va aggiunto secondo il filosofo il “colpo” inferto da Marx. Una frattura che nel suo contraddittorio annunciare un movimento operaio portatore di libertà e produrre la storia novecentesca di un mondo totalitario continua a essere presente come fantasma di una cosa, il comunismo, che non c’è davvero mai stata e che può sempre annunciarsi.
Ma io credo che un altro formidabile “colpo” sia stato inferto al “narcisismo dell’uomo”, dell’uomo in quanto maschio e della sua pretesa universalizzante: è stato il “colpo” della rivoluzione femminile e del femminismo.
Non per caso un filosofo come Giacomo Marramao, attento al pensiero della differenza e ai fenomeni di transizione di un mondo che si va sempre più distaccando dal sistema di stati che ha caratterizzato la modernità, è venuto elaborando il concetto di un “universalismo della differenza”, in quella che, piuttosto che “globalizzazione” o “postmodernità”, preferisce definire “modernità mondo”. “In questa fase di passaggio – scrive – tra il non-più del vecchio ordine interstatale e il non-ancora del nuovo ordine postnazionale (…) per lungo tempo dovremo disporci a scrivere con una mano la parola “universalità”, con l’altra la parola “differenza”. E per lungo tempo dovremo resistere alla tentazione di scrivere entrambe le parole con una mano sola. Poiché sarebbe, in ogni caso, la mano sbagliata”. ((nota 8))
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Recentemente si sono riuniti a Torino operaie e operai provenienti dagli stabilimenti Fiat disseminati un po’ in tutto il mondo. Ci vorrà del tempo ma quel che resta del movimento operaio occidentale forse capirà che avrà nuove possibilità di affermazione solo uscendo da una dimensione nazionale, evitando il rischio di lasciarsi contrapporre, in una guerra globale tra poveri, agli immigrati di casa nostra o agli operai asiatici e orientali che “costano meno”, ma anzi cercando l’unità di azione con il nuovo proletariato emergente in tutto il mondo.
Ma questa sarebbe una “mano sola”: usarla da sola sarebbe sbagliato.
In un testo del femminismo italiano del 1996 (((nota 9))) si parla del ruolo centrale che ormai rivestono le donne nel mercato del lavoro, e del fatto che non si consegnano completamente alla logica del mercato capitalistico. Una analisi oggi rilanciata dalla constatazione che, dopo la lotta per la liberazione e l’ingresso nel mercato, le donne oggi affermano un “doppio sì” (((nota 10))), al lavoro e alla maternità, che apre nuovi territori alla contrattazione, allo stesso significato simbolico del rapporto tra produzione e riproduzione, tra lavoro, vita e cittadinanza.
“Il rivoluzionamento delle vite femminili cui stiamo assistendo – affermava quel testo (((nota 11)))– non sarebbe stata possibile senza questa contrattazione fine, dove in gioco non è soltanto l’entità dello stipendio o un posto in alto, ma un più vasto insieme di scambi, abbiamo detto, dove entrano anche la qualità del lavoro, le gratificazioni affettive, e certe esigenze di civiltà, come quella della restituzione di cura agli anziani. Per questo diciamo che la politica, oggi, è la politica delle donne. Non si può vivere la crisi di questa fine secolo, che è anche una fine millennio, senza portare sul mercato tutto, la propria forza lavoro, ma anche i sentimenti, le aspettative, gli affetti, le aspirazioni… A questa stregua una/uno si accorge che il mercato regolato dal denaro è solo mezzo mercato, e non basta a rendere possibile la ricchezza di scambi di cui la vita umana è capace e desiderosa”.
Modificare il mercato partendo dalle relazioni nel mercato, prima che dall’intervento dello stato. Penso che oggi la sinistra – le donne e soprattutto gli uomini della sinistra, finora così sordi e ciechi – dovrebbero rimeditare queste parole e considerarle utili per ritentare, utilizzando due mani, di costruire la nuova Internazionale di cui c’è bisogno.
NOTE:
1 – Il sottotitolo di questo testo di Derrida, pubblicato in Francia nel 1993 e tradotto in Italia l’anno successivo per Cortina, recita: “Stato del debito, lavoro del lutto e nuova Internazionale”.
2 – Giulio Tremonti, “La paura e la speranza”, Mondadori 2008.
3 – Alan Greenspan, “L’era della turbolenza”, Sperling & Kupfer 2007
4 – Ayn Rand, “La rivolta di Atlante”, Corbaccio 2007. Cfr anche la raccolta di testi teorici “Le virtù dell’egoismo”, Liberlibri 1999.
5 – Esposta per esempio da Innocenzo Cipolletta sul quotidiano della Confindustria, Il Sole 24 Ore, il 10 settembre 2008, “Le crisi normali di un mondo nuovo”.
6 – Giovanni Arrighi, nel suo “Adam Smith a Pechino” (Feltrinelli 2008) ipotizza un nuovo multilateralismo globale grazie all’ascesa della Cina. “Nel 2006 e nel 2007 – scrive Fareed Zakaria nel suo nuovo libro “L’era post- americana” – 124 paesi sono cresciuti a un tasso annuo pari o superiore al 4 per cento. Tra questi ci sono più di 30 stati africani (…) la percentuale di persone che vivono con un dollaro (o meno) al giorno è crollata dal 40% del 1981 al 18% del 2004…”. Vedi anche le conclusioni generali in “Le sfide della globalizzazione”, di Targetti e Fracasso, Francesco Brioschi editore, 2008
7 – Jacques Derrida, op. cit., pag. 125 e seg.
8 – Giacomo Marramao, “La passione del presente”, Bollati Boringhieri 2008.
9 – “E’ accaduto non per caso”, Sottosopra rosso, gennaio 1996.
10 – “Lavoro e maternità, il doppio sì, esperienze e innovazioni”, Quaderni di Via Dogana 2008.
11 – Il testo è citato in “Un paese sottosopra. 1973-1996: una voce del femminismo italiano”, di Letizia Paolozzi e Alberto Leiss, Pratiche, 1999.