“La povertà nel mondo può sparire, si andrà nei musei per vedere cosa era. Nel 2030 non ci saranno più poveri», sostiene con appassionata convinzione il premio Nobel per la pace nel 2006 Muhammas Yunus, che ho incontrato a Roma in occasione della laurea honoris causa in Cooperazione e sviluppo che gli ha conferito l’Università La Sapienza di Roma: «Eliminare la povertà non è un’utopia, siamo già sulla strada di dimezzare il numero dei poveri, che era l’obiettivo fissato per il 2015. India, Cina, Bangladesh, Thailandia, Vietnam vanno in quella direzione. I problemi sono in Africa. Ma la strada è aperta, ce la si può fare». Trascinante, convinto, pragmatico eppure, o forse proprio per questo, visionario. È forte l’impatto con “Il banchiere dei poveri”, come lo definiva il titolo del libro pubblicato in Italia da Feltrinelli che 10 anni fa ha fatto conoscere in tutto il mondo il suo approccio innovativo. Uno che sostiene fino in fondo tutte le ragioni del capitalismo, del guadagno, del mercato, eppure propone strade che appaiono del tutto diverse da quelle consuete del profitto, come il business sociale. E racconta il progetto che ha messo in piedi con la Danone, la produzione di uno yogurt arricchito da vendere a bassissimo prezzo ai bambini del Bangladesh, il suo paese. Un business in cui l’impresa non guadagna, ma neppure perde, cioè non fa beneficenza, perché recupera nel tempo i capitali investiti. Un progetto concreto come tutta la sua impresa, nato dall’incontro con Franck Riboud, il patron dell’azienda francese, che gli ha chiesto di aiutarlo a realizzare qualcosa di diverso e di utile. Un progetto di cui parla nel libro appena uscito “Un mondo senza povertà” (Feltrinelli, 240 pagine, 15 euro).
«Il capitalismo deve essere completato. È un buon sistema, ma mancano delle cose, io lavoro su questo aspetto» dice sorridente e fermo, e questo è il massimo di critica teorica a cui è disponibile, non gli piace la parola “riforme” che suggerisco. «Io non punto mai sul conflitto, sulla tensione. Anche nel proporre il microcredito non dico mai alle banche di piantarla di fare prestiti ai ricchi, dico che non fanno prestiti ai poveri». Un rovesciamento creativo, da cui è partita l’impresa che ha cambiato la vita di milioni di poveri. «Credevo di affrontare un problema locale, quando a Jobra diedi pochi dollari alle persone perseguitate dagli strozzini rendendole felici. In seguito mi sono reso conto che era un problema globale. In tutto il mondo le banche prestano soldi solo ai ricchi».
È microcredito la parola magica, la forma creativa che Mohammad Yunus ha messo in pratica. In una prima fase si è proposto come garante alle banche del Bangladesh, che come gli istituti di credito del mondo si rifiutavano ostinatamente di prestare anche cifre minime, quelle necessarie ai poveri per riscattarsi dai debiti e iniziare una piccolissima attività, in seguito ha preso la decisione, lui professore di economia, di diventare banchiere. «Tutto è partito dall’esperienza. Ero convinto che queste persone avrebbero restituito il prestito, ne andava della loro vita. Ma all’inizio non era chiaro che le più affidabili sarebbero state le donne. I verità cercavo i più poveri, e le più povere, quelle messe più da parte, sono le donne».
È così che Yunus diventa forse uno degli uomini al mondo che più sostengono l’emancipazione, la libertà femminile, la maggior parte dei clienti delle Graamen Bank quasi il 97 per cento, sono donne:«Con la Graamen Bank puntavamo a coinvolgere il 50 per cento delle donne, era un nostro obiettivo, non pensavamo che la nostra sarebbe stata un’impresa soprattutto femminile».
I motivi sono radicati nei rapporti tra donne e uomini: «I mariti, anche i più poveri» osserva «danno pochissimi soldi alle donne, che sono abituate a gestire un’economia con scarse risorse. Così ogni centesimo nelle loro mani frutta moltissimo. Mentre abbiamo notato che gli uomini se la cavano malissimo, non sono puntuali nella restituzione, e non usano il prestito per la famiglia. Mentre le donne, le madri, appena si sono sottratte alla schiavitù dei debiti, pensano subito ai figli, al loro futuro». È un cambiamento enorme, epico, quello messo in moto dalla mente creativa di Mohammad Yunus:
«C’è poco da fare, quando qualcuno ha del denaro in mano, cambia il modo di pensare, di stare al mondo, oggi sono diverse da prima, sono altre donne».
Cambiamenti che hanno terrorizzato i religiosi del suo paese: «All’inizio i mullah tradizionalisti ci hanno accusato di distruggere l’Islam, in primo luogo perché portavamo le donne fuori dalla famiglia, e poi perché la nostra banca non si rifaceva ai principi islamici». Ma non sono mancati buoni argomenti: «La stessa moglie del Profeta, e quale migliore modello per un musulmano, era una donna d’affari. E la nostra banca più islamica non potrebbe essere, visto che rimette in circolo i suoi profitti».
La Graamen Bank ha ora sedi in tutto il mondo, tranne che in Europa: «Cinque mesi fa abbiamo aperto una sede a New York. Abbiamo 300 clienti, tutte donne. E i prestiti vengono restituiti al 100 per cento». Mohammad Yunus è convinto che «l’essere umano ha una forza enorme, che va incoraggiata», e che le teorie economiche non sanno accogliere le pratiche creative: «Il denaro» dice «non è come la terra, che è limitata, per darla ai contadini bisogna toglierla ai feudatari. Il denaro c’è per tutti».
Questo articolo è uscito sul Secolo XIX