Dunque, Hillary ha perso e Obama ha vinto. Ma la sua sconfitta non è stata registrata. Perlomeno dalle donne che, come me, fanno politica istituzionale e che dunque dovrebbero avere a cuore una donna che si afferma (e poi perde) nella competizione per la presidenza degli Stati Uniti.
Forse le mie sorelle del centrosinistra tifavano per il ragazzo afroamericano e quelle del centrodestra per l’eroe del Vietnam repubblicano, poco più anziano di Silvio Berlusconi?
Eppure, lo schema mediatico che per alcuni mesi ha intrappolato la sfida tra i due campioni democrats statunitensi rischia di non farci analizzare la scalata alla Casa Bianca di Hillary – una donna in competizione per la presidenza della Repubblica americana – come discorso che può e deve riguardarci tutte.
In effetti, nella competizione per le primarie democratiche e nella figura di Hillary, ha pesato il sesso e la misoginia (anche di giornaliste odiosamente acuminate come Maureen Dowd del Ney York Times); l’ingombro rappresentato da Bill Clinton. Però alcuni temi, agitati da Hillary, saranno fondamentali anche per Obama.
Dunque, Bill Clinton è stato un fardello molto pesante. Sia da presidente – mi riferisco alla sala ovale frequentata da Monica Lewinsky – quando lei, la moglie, avrebbe fatto bene a prenderlo a padellate. Ma anche da sfidante alle primarie: visto che lo slogan che lo aveva portato alla vittoria nel 1992 “Change vs More of the same”, se l’è preso proprio Obama, rovesciando le parti e mostrando una Hillary ben più conservatrice. Certo, il senatore afroamericano non può nascondersi che il Partito Democratico resterà a lungo “Clinton country”: anni e anni di policies, consulenti, establishment non li cancella neanche lo tsunami salito dall’Illinois.
Continuo a ritenere che la misoginia abbia avuto la meglio sulla questione razziale. Tra conflitto di razza e di sesso, quest’ultimo è – anche negli Usa – più complicato da cogliere. “Il genere, non la razza, è l’handicap più grave. Se Obama fosse stato una donna non ce l’avrebbe fatta”, ha detto la femminista americana Gloria Steinem. Forse, nelle primarie i democratici americani hanno risolto il loro senso di colpa rispetto ai neri votando Obama. Forse il conflitto tra i sessi, un conflitto d’amore e di guerra, non si risolve in un voto. Le Monde, alcuni giorni or sono, ha scritto che la questione delle donne è un rischio molto grande per Obama: quello della sconfitta. Visto che solo il 60% delle donne che hanno sostenuto Hillary Clinton, oggi appare pronta a votare per il maschio candidato democratico.
Resta il fatto che Hillary ha perso. E ha ammesso la sconfitta. Un passo difficile. Non è semplice perdere con autorevolezza senza che un simile gesto sia vissuto come umiliante. Eppure lei ci è riuscita: ha riconosciuto la leadership di un quarantenne che fa sognare. Mentre il suo viso da sessantenne alla fine, dopo l’offesa delle rughe, si è trasformato in sinonimo di preparazione e di esperienza.
L’ammissione, se da una parte chiude la sua scommessa politica, dall’altra – lo ha detto lei stessa – apre la strada ad una donna alla Casa Bianca. Una strada e una battaglia che non le sono nuove: già nella conferenza delle Nazioni Unite sulla donna che si tenne a Pechino nel 1995, si era battuta per le sue sorelle di sesso.
E se la questione femminile è cavallo di battaglia della ormai ex sfidante di Obama, stessa cosa vale per la sua idea di una riforma sanitaria. Su cui si era impegnata, da first lady, ai tempi della prima presidenza di Bill. Un altro scontro perso per via dell’ostilità delle lobby farmaceutiche. Tuttavia che la salute degli americani non possa essere esclusivamente affidata a chi si può permettere un’assicurazione si sta radicando – complice il film-documentario di Michael Moore – nel senso comune degli americani.
Ho tifato per Hillary perché se una donna – che appartenga alla mia area politica o al centrodestra – scende in campo, la cosa mi riguarda. Il silenzio su tutto questo è, invece, la cartina di tornasole dello stato della politica italiana. Quando le donne vengono sempre dopo e non competono per la leadership, la partita è di retroguardia. E la politica non ha nulla di brillante.
In fondo, che la politica italiana non abbia la vivacità mostrata dalla democrazia americana non sono certo io a scoprirlo.