L’8 marzo di quest’anno è stato segnato da polemiche particolarmente acute sulla questione dell’aborto: riteniamo utile offrire al confronto pubblico questo testo elaborato da alcuni uomini.
In Italia e nel mondo si allarga e si approfondisce una discussione sul valore della vita, sull’aborto, sul ruolo di donne e uomini nel concepimento.
Ci sembra che il dibattito pubblico aperto possa svilupparsi in due direzioni: una – per noi negativa e inaccettabile – è quella di un tentativo di autoaffermazione maschile per riconquistare un potere simbolico e normativo perduto sul corpo e sulla libertà delle donne. La seconda è invece l’assunzione di una maggiore consapevolezza maschile, in una ricerca fondata sul riconoscimento della libertà femminile quale condizione di una nuova libertà anche per gli uomini, e di un modo più responsabile di vivere la propria sessualità, le relazioni tra i sessi, le scelte per il concepimento.
In Italia la discussione più recente è stata sollecitata anche dalla proposta di cosiddetta “moratoria” sull’aborto.
Parlare di “moratoria” – in seguito al successo dell’iniziativa italiana per sconfiggere la pena di morte nel mondo – equipara in modo provocatorio e inaccettabile la scelta personale di una donna di rifiutare una gravidanza a quella degli Stati di togliere la vita al prossimo in nome del diritto. Introduce inoltre una grave e altrettanto inaccettabile confusione rispetto alla gestione e attuazione delle leggi – come in Italia la 194 – che sono intervenute contro la pratica dell’aborto clandestino.
Con una parte degli argomenti sollevati dalla “campagna” sulla “moratoria” pensiamo sia invece giusto confrontarsi, anche per contribuire a una maggiore chiarezza del discorso pubblico.
In particolare anche noi riteniamo giusta una battaglia contro la pratica degli infanticidi e gli aborti selettivi delle figlie femmine in vaste parti del mondo. Non è accettabile che uno stato – come avviene in Cina – tenda a obbligare per legge la limitazione delle nascite a un solo figlio. Le discriminazioni e gli infanticidi delle femmine sono però il frutto di pregiudizi maschilisti che vanno sradicati prima di tutto dalla testa degli uomini.
In Cina e in altri paesi, come l’India, in cui questi pregiudizi sono diffusi, si allargano anche le proteste delle donne, delle popolazioni e delle forze politiche e culturali più aperte: è nella condivisione di queste reazioni che va misurata la sincerità della denuncia che viene da noi maschi occidentali. Anche la discussione sulle pratiche eugenetiche e sul rapporto tra scienza e vita va affrontata in uno spirito di apertura, bandendo l’evocazione – anche questa provocatoria e pericolosa – di nuove “crociate” ideologiche o religiose, con i loro effetti oscurantisti.
La sincerità di un impegno maschile per la vita va secondo noi messa alla prova dei significati di alcune parole chiave: libertà, sacralità, diritto, sessualità e paternità.
La libertà delle donne è la nostra libertà e il riconoscimento della differenza sessuale è il momento fondante di nuove relazioni. Una donna può generare e partorire e un uomo no. E’ una verità che può creare in noi uomini un’invidia difficile da confessare. Un sentimento che dovremmo imparare a elaborare riconoscendo in esso semmai un desiderio di paternità che non dovrebbe mai essere disgiunto dall’amore e dal rispetto per la donna senza la quale questo desiderio non potrebbe mai essere realizzato.
Amore e rispetto che deve necessariamente comprendere anche la libertà ultima della donna di accettare o meno la sua gravidanza: un’esperienza che riguarda intimamente il suo corpo, il suo intelletto e i suoi sentimenti.
Noi, che parliamo anche a partire da una pratica di relazione e di scambio con altri uomini che sono credenti e non credenti, abbiamo differenti concezioni del significato di sacralità della vita ma ciò non impedisce che concordiamo su alcuni principi. La critica radicale alla pena di morte e alla guerra si basa su un’idea di intoccabilità della vita nell’ambito del diritto. Ma il concepimento, la cura, la crescita della vita nel ventre della madre nel suo duplice e unico corpo non può essere completamente razionalizzata in termini di “diritto”. La pratica medica comunque garantisce che in nessun caso si possa intervenire sul corpo senza un vero consenso. A maggior ragione questo vale per la scelta delle donne sul loro corpo e su quello dei nuovi esseri umani che stanno generando. Noi uomini non possiamo che partecipare a questa nuova generazione di vita consapevoli di poterla condividere solo parzialmente.
Siamo rimasti molto sorpresi di fronte alle dichiarazioni di alcuni esponenti della gerarchia cattolica italiana, preoccupati di invocare i risultati della scienza per sottrarre al più presto possibile il destino del feto al corpo, alla volontà e all’amore della madre.
Molti uomini, che dimostrano una passione pubblica sul tema dell’aborto, criticano l’idea che questa scelta – vissuta dalle donne quasi sempre con drammatica sofferenza – possa essere equiparata a un “diritto”. Noi facciamo propria la posizione del femminismo che ha sempre rifiutato per l’aborto il termine di “diritto” ma ha teso semmai a vederne un effetto del “disordine incosciente” sessuale maschile, troppo spesso subito dalle stesse donne. Ma è particolarmente intollerabile che molti maschi che criticano il “diritto all’aborto” oppongano poi alla libertà di scelta della donna il “diritto” del nascituro, attraverso una serie di astrazioni e di slittamenti del linguaggio che portano a nominare “bambino” il feto e “persona umana compiuta” l’embrione. Cioè stadi della vita che possono esistere e evolversi solo grazie all’accettazione del corpo materno che li contiene e li nutre.
L’inquietudine maschile sul tema del controllo sulla nascita sembra trovare soddisfazione solo nella produzione formale di nuove norme. E’ indicativo l’uso della dicitura – che si vorrebbe introdurre nella dichiarazione universale dei diritti dell’uomo – secondo la quale il “diritto alla vita”, già nominato in quel testo, debba essere inteso “dal concepimento alla morte naturale”. Ci sembra una massima non universale ma frutto di una più o meno consapevole parzialità maschile: infatti vi è completamente rimosso il dato che dal concepimento alla nascita quel “diritto”, quella potenzialità e possibilità di vita, sono interamente affidate alla cura e alla scelta della madre. Se rimuoviamo questo dalle nostre leggi non potremo essere creduti nella buona fede in favore della vita, e tanto meno nelle promesse di rispetto per la libertà femminile.
Sessualità e paternità, forse più di ogni altro aspetto, ci riguardano. Il controllo del corpo femminile esercitato dal genere maschile, ha spesso ridotto la nostra sessualità ad un atto di conquista e di possesso che ignora le conseguenze, che si dimentica volentieri dell’asimmetria costituita dal fatto che nell’atto sessuale del maschio è sempre implicita la possibilità di fecondazione, mentre il piacere femminile non è altrettanto meccanicamente legato alla riproduzione. Ma le conseguenze della fecondazione ricadono invece tutte sul corpo femminile.
Ciò che non leggiamo in tante prese di posizione maschili – anche in quelle che a parole difendono la libertà di scelta femminile – è una chiara parola sulla presenza o meno del proprio desiderio di paternità e sulla capacità di riconoscerlo nell’assunzione delle proprie responsabilità e di incontrarsi e di misurarsi con l’esistenza o meno del desiderio di maternità femminile. Una posizione indifferente rispetto alle pratiche abortive può nascondere una visione in fondo altrettanto misogina di quella che rifiuta l’aborto in nome della riconquista del potere patriarcale perduto sul controllo del corpo femminile.
La cultura maschile esercita qui ancora un potere di fatto violento, anche al di là dello scandalo delle violenze sessuali così diffuse tra le mura domestiche e nelle strade. Esso si riflette non solo in tanti usi pubblici e pubblicitari del corpo delle donne, ma anche nelle pratiche scientifiche e mediche.
Esiste la prevenzione, ma c’è una grande disparità fra uomo e donna; il corpo femminile è stato oggetto di ricerca e sperimentazione, non è stato così per il maschio. La ricerca ha ben capito, seguendo la cultura dominante maschile, che i profitti si sarebbero fatti con la pillola e non con il ‘pillolo’ (semmai l’industria farmaceutica prospera sul “pillolo” non per la contraccezione ma per rimediare all’impotenza o alle prestazioni insoddisfacenti).
Per concludere, la nostra domanda è questa: cari uomini , ci preoccupa il problema dell’aborto? Allora dite, diciamo qualcosa della nostra sessualità e del nostro desiderio di paternità.
Antonio Canova, Marco Cazzaniga, Riccardo Corrieri, Giuliano Dalle Mura, Franco Fazzini, Massimo Greco, Alberto Leiss, Massimiliano Luppino, Gianfranco Neri, Gianguido Palumbo, Roberto Poggi, Stefano Sarfati Nahmad, Claudio Vedovati.
( Gli autori della riflessione fanno anche parte dell’associazione nazionale MaschilePlurale )
per comunicare: indirizzo e-mail: [email protected]