Al direttore – Le battaglie culturali sono di chi le fa e di chi vi aderisce. Servono a unire i simili e a creare scompiglio tra i diversi, a realizzare fini politici di piccolo o grande calibro. Da questo punto di vista la “moratoria sull’aborto” mi sembra ben riuscita. Fatto salvo l’inevitabile strascico intorno all’immobile dilemma politichese su cambiare o no la legge 194 (cambiata lo sarà, non ho dubbi, per la parte riguardante l’aborto terapeutico, e prima di quanto non presuppongano i più timorosi sostenitori dell’una o dell’altra possibilità), essa ha già raggiunto due risultati: uno più piccolo ma immediato, il sostegno economico della Regione Lombardia e del Comune di Milano ai centri di aiuto alla vita, l’altro più che grande grandioso ma futuribile, l’introduzione del “diritto alla nascita” niente meno che tra i diritti umani sanciti dall’Onu.
Detto ciò, confesso, preferirei una battaglia culturale sull’aborto di tipo opposto rispetto alla sua: sulla depenalizzazione così come fu proposta nel femminismo (non dal femminismo, che andò da tutta un’altra parte) come scommessa sulla libertà dopo il crollo del regime proibizionista incompatibile con la pressione della modernità. Pur non possedendo più la baldanza di quegli anni, continuo a credere che nessuna legge possa piegare nei suoi confini un rebus esistenziale quale è un’interruzione di gravidanza, un rebus-a-tre tra lei lui il non-nato.
Tre entità diverse sono, con diversi interessi da comporre e conflitti da affrontare. Lei ha da fronteggiare un conflitto tra sé e sé e con l’altro con cui ha concepito (o con il suo fantasma) nonché con l’altro ancora che porta in grembo, la cui sorte da lei dipende. Che lo accolga o lo rifiuti, nulla può rassicurarla su ciò che l’aspetta. Alla faccia della “maternità consapevole” che ha accompagnato e accompagna la propaganda della 194, nessuna donna sa cosa accadrà di lei e del figlio o figlia futuri: l’unione e il distacco la madre lo conosce bene come gioco d’amore sublime e perverso.
Poi c’è lui, il coautore, che deve rendersi consapevole dei propri limiti e delle proprie prerogative, cosa non facile per chi ha l’abitudine antropologica di sfilarsi dalle responsabilità o con l’assenza o con l’acquiescenza, o con la rabbia più o meno repressa del comando.
Infine, c’è il non nato che ha interesse a nascere per impulso creaturale, e su questo di più non posso dire tanto è grande il mistero della vita, che sia dono o caso. Le carte del destino e del libero arbitrio si possono mescolare in tanti modi ma in un aborto sempre c’è qualcosa di irriducibile che accade. E di imponderabile. Come sono imponderabili la vita e la morte.
Le donne danno la vita, le donne la tolgono. In termini non così crudi ma persino più dirompenti è stato affermato un di più di potere delle donne nella riproduzione della specie come prerogativa della differenza sessuale femminile. E’ una prerogativa che ancora risuona, sia pure in maniera flebile e largamente distorta, nelle leggi sull’aborto esistenti, non solo la 194 nostrana. Ma quando quella prerogativa veniva pronunciata non ci sembrava primaria la conta degli aborti, bensì volevamo la depenalizzazione per dare significato a ciascuna interruzione della gravidanza, e ai connessi conflitti.
La legge ha invece normalizzato l’evento, incanalandolo nella logica imperante del diritto e della tutela: della donna debole e, oggi, del non-nato ancora più debole. E’ la stessa logica che vedo significarsi nella “moratoria degli aborti”. Né mi sento in coscienza di contrastarla nel metodo. Nel merito sì, malgrado il suo successo può dirsi occidentale e, in proiezione, planetario: basta pensare allo stracitato slogan elettorale di Hillary Clinton: “abortion safe legal and rare”.
Il fatto è che tutto ci si inventa pur di non toccare lo spazio pubblico dell’aborto legalizzato, nel quale alla donna (ma anche all’uomo) è stata concessa una sorta di libera uscita privata però dalla libera interrogazione del senso. La normalità dell’aborto, oggi, sta nella difesa di questo status quo perennemente traballante. Perché non può soddisfare né chi come lei e tante altre brave persone è moralmente contro l’aborto né quanti (altrettante brave persone) hanno altro pre-giudizio morale.
Ma tant’è. Non mi resta che constatare il trionfo dello Stato laico che tutto riduce a principi astratti e come un rullo compressore azzera disparità pretendendo di sanare disuguaglianze. E – sulle orme del Leviatano – pur di pacificare e ridurre al silenzio la massa ritenuta perversa dei suoi sudditi, non ha disdegnato e non disdegna di assumere l’identità di stato abortista.