Le ostetriche di Oio camminano sui confini.
Ovvio, Oio è una regione di confine. Segna la frontiera tra Guinea Bissau e Senegal. La frontiera che separa i paesi diventa una linea che divide il luogo delle ambulanze, delle elettricità distribuita, delle cure quasi garantite (anche se pagando), dal luogo del buio, delle strade disastrate, dell’assenza di mezzi di trasporto per i malati, dalle cure non garantite (anche se pagando).
Le ostetriche non solo di questi dogane si occupano. I confini su cui camminano, quelli che attraversano e da cui ritornano, sono quelli al cui transito mostrano un passaporto timbrato dai sogni delle notti di lavoro.
Percorrono confini e valicano frontiere nello spazio e nel tempo, levatrici di bambini e educatrici di madri, riparatrici di lacerazioni e tessitrici alla ricerca di consensi, abitano tempi incerti e luoghi precari, stanzette del parto bisognose di strumenti, di guanti sterili, di spazio per muoversi e di luci per vedere il bimbo che nasce.
Attraversando frontiere tracciano linee rette, curve, tangenti… quale sarà il disegno che apparirà guardando i segni sulla terra dall’alto di un’altra generazione?
Intanto loro disegnano e ricamano.
Interrogano i confini del tempo: Marta attribuisce un’età alla partoriente: “quanti figli, quanti parti?”. I parti sono quelli che hanno lasciato una traccia nella memoria, quelli che sono stati contati e ricordati. Tanti parti diventano tanti anni di età probabili. Anni probabili che sul libro dei dati diventeranno certi, l’età che formerà i dati delle statistiche.
Quanto è fragile l’ossatura, stretto il bacino? L’età della gravidanza è precoce, ad alto rischio il parto. Chi ha deciso il matrimonio? questa domanda resta silente.
Da quanti mesi è iniziata la gravidanza? perché solo al secondo trimestre una donna si presenta al centro per la consulta prenatale? Alcune raccontano. La percezione di essere incinta nei primi mesi è incerta, personale, e soprattutto la notizia deve essere sottratta agli sguardi malevoli, al malocchio di un qualche “feticeiro”, nemico della famiglia o del bambino se nascerà. Da questi rischi prima di qualsiasi altro la donna incinta protegge la sua gravidanza.
I confini del tempo incrociano i territori delle religioni, e sono molte e diverse quelle che si professano nella regione: cattolica e protestante, musulmana e animista, in modo diverso ciascuna stabilisce norme, precetti, consuetudini. Ma sembra che sia soprattutto l’autorità delle donne anziane della famiglia a decidere il parto casalingo.
Così viene segnata una separazione tra le ostetriche e molte donne, i cui parti, i figli nati vivi e quelli morti compariranno nelle statistiche solo per approssimazione, donne che non ricevono cure sanitarie professionali, e restano in un territorio impreciso.
Le ostetriche dunque non incontrano tutte quelle che partoriscono in casa, distese accanto al fuoco, circondate da quelle più anziane, che battono le mani per cacciare il dolore o che direttamente battono il corpo e il ventre della partoriente, soprattutto se giovane, primipara e spaventata. Conoscono la paura, che obbliga le gravide ad accettare tabu alimentari all’origine della malnutrizione, e concausa dell’ipertensione fino all’eclampsia. Ne conoscono la sottomissione a un rigido precetto del digiuno del Ramadan, che le indebolisce mentre lavorano nel mato a raccogliere legna, cercare acqua e raccattare animali sparsi.
E capita che esse assumano come obiettrici di coscienza norme della propria religione, e in quanto testimoni di Geova rifiutino qualsiasi consiglio di planning familiare se non alle madri di almeno sei figli.
Camminano sui confini della salute e dell’educazione, incontrando comportamenti diversi e norme differenti, avviando conversazioni, spiegando e provando a convincere a fidarsi maggiormente del centro di salute che delle anziane potenti a casa. Consigliano e infine prescrivono altre norme, di cui si fanno interpreti.
Suggeriscono di distanziare nel tempo le gravidanze, di diminuirle di numero. Decide l’autorità del marito, che qualche volta può essere convinta, altre volte provano ad aggirarla. Urtano il confine con il muro più alto che dice che “ una donna africana è schiava di suo marito, lei non decide, non sceglie, non ha denaro”.
Perché l’assistenza costa, per quanto poco, costa denaro in moneta. Mentre le ostetriche non vengono pagate dallo Stato da mesi e mesi. Senza salario e dovendo comprare cibo alla propria famiglia, come sottrarsi ad inventare qualche vie diretta e certo non così aderente ai confini della legalità amministrativa? Qualche surcharge sul pagamento delle consulte forse? solo un’irruzione da poco.
E se c’è un confine che separa e/o unisce la riproduzione dalla sessualità, questo è poco detto, poco nominato il piacere dell’eros. E’ conosciuto l’esito della pratica delle escissioni, variabili nelle diverse etnie, che diventa spesso causa di emorragie. L’escissione è nominata dalle ostetriche, quasi mai accettata a parole, talvolta invece suggerita alle nipoti, spesso nei fatti ne leniscono le cicatrici, quando di nuovo feriscono il corpo femminile nel momento del parto.
L’escissione non segna un confine netto, le ostetriche non abitano zone di certezza. Piuttosto si spostano tra educazione e prescrizione, distribuiscono ricette e comportamenti. Attraversano i confini al di fuori delle loro stanzette soffocanti, partecipano alle campagne di vaccinazione, girano per quanto possibile senza mezzi di trasporto nelle tabancas – nei villaggi- a parlare, convincere, “sensibilizzare”. Prima di tutto a venire a partorire nei Centri, che mancano di quasi tutto il necessario, e lo sanno bene, quando attraversano l’oscurità di un parto notturno, complicato, con una “torcia in bocca per vedere come nasce il bambino, cosa fanno le mie mani, quanto sangue si diffonde”.
Lo sanno e Matilde, giovane, bella e diplomata da studi superiori oltrepassa i confini della pazienza “sono stanca, stanca di stare a sentire solo promesse, sempre promesse e di non avere niente di ciò che è necessario per lavorare bene”.