«Non ho mai votato, non ci capisco niente, ma per l’aborto ci sono andata, è stata l’unica volta in vita mia, e ho votato per tenerlo. I bambini non si devono buttare, io sono proprio contraria, ma devi essere libera. Ne conosco troppe di storie nessuno ti deve dire niente, ci mancherebbe».
Non avrei mai sospettato che Antonietta la pensasse così, la conoscevo come una convinta antiabortista, anche ieri mi raccontava dell’ultima nipotina arrivata nella sua grande famiglia. È figlia di Valentino, il quarto dei suoi figli, 17 anni, e di Valentina, che ieri ha compiuto 18 anni. Sono cresciuti insieme, uno sta al piano di sopra e l’altro di sotto, le famiglie hanno deciso che i due ragazzi devono finire di studiare, la bambina sta con la mamma,Valentino è impazzito di gioia e ora studia di più. «Quando è venuto fuori che era incinta si era detto che la ragazza doveva abortire ma io ho spinto perchè non lo buttassero il pupo, sono contenta, non siamo gente ricca ma non ci manca niente». Antonietta ha cinquantatre anni, lavora in un’impresa di pulizie in grandi aziende, ha cinque figli con due padri diversi, e già svariati nipoti. Il marito è finito al gabbio perché rubava «ma i figli li ho cresciuti a posto», il secondo uomo è un poliziotto, l’ha conosciuto quando occupava le case nella periferia di Roma, ora si è finalmente sistemata, «lui ha provato a chiudermi in casa, non voleva che lavoravo, ma non ce l’ho fatta», l’ha lasciato nonostante i due figli con lui e fa la matriarca.
L’inaspettato endorsment pro choice di Antonietta mi sembra un grande regalo, fa chiarezza. Non perché lei è la “donna semplice” che mi gioco contro le odiose “donne con i tacchi” evocate proprio ieri sera da Giuliano Ferrara intervistato da Daria Bignardi alle “Interviste Barbariche” su LA7. Che sarebbero un’icona, e prima tra tutte lei, Daria, della contemporanea cultura abortista e indifferente, quella contro cui lui, Ferrara, si batte. Per amore delle donne, dice, è per questo, per amore, che irritato dalla sua sorridente fermezza femminile le sbatte in faccia un’espressione di così magistrale misoginia?
Di Antonietta fanno ordine le parole vere che una donna usa per dire che lei «deve essere libera». È la libertà il diritto, non l’aborto. Una libertà che ciascuna esercita nell’assumersi la responsabilità delle scelte che compie. Nelle situazioni in cui si trova. Questo mi ha insegnato di nuovo Antonietta, caso mai l’avessi dimenticato, «ne conosco tante di storie nessuno ti deve dire niente».
Etica della situazione, etica della responsabilità.
Solo un soggetto libero – non determinato per quanto possibile nelle condizioni date –è un soggetto etico. Il punto difficile da capire, per via del contesto drammatico e conflittuale, è che per le donne, per ogni singola donna nella propria peculiarissima vita – succede che l’accesso all’etica è avvenuto nel momento in cui l’aborto è stato depenalizzato. E qui sta il più grande fraintendimento, più o meno in buona fede. Perché la libertà di scegliere non è uno speciale arbitrio che compete alle donne in virtù della maternità. Essere madre non ti dà un potere di vita e di morte sui figli, anche se a volte capita di pensarlo, essere donne non significa di per sé essere buone o perseguire il bene per definizione.
La depenalizzazione, la legalizzazione dell’aborto è lo snodo chiave della libertà femminile perchè il dominio degli uomini sulle donne si è costruito sul controllo della procreazione femminile. Dare il nome del padre, stabilire quali sono i figli che fanno parte della famiglia e quali no, quanti figli servono e si possono fare per la gloria del pater familias sono gli elementi di un ordine patriarcale che nel mondo occidentale è stato smontato pezzo per pezzo. Il reato di aborto è l’ultimo pilastro, la depenalizzazione o la più diffusa legalizzazione sanciscono che la donna decide di sé e dei figli. Ne ha la capacità etica, se ne può assumere la responsabilità, può scegliere. Viene alla luce quella speciale relazione tra i due, la madre e il figlio, messa a fuoco in special modo da Adriana Cavarero e Claudia Mancina
Se ci fosse un accordo, se tutti e tutte convenissimo che il primo punto di conflitto è intorno alla libertà femminile e alla responsabilità di scegliere che ne discende, la discussione potrebbe prendere un altro corso. Ragionare su come la responsabilità delle donne si rapporta alle nuove tecnologie, alle conoscenze che portano, all’idea quasi insostenibile che la creatura che cresce dentro il proprio corpo possa soffrire. Insisto sulla responsabilità, che secoli di filosofia e pensiero maschile hanno negato alle donne. Anzi, proprio perché madri o destinate a esserlo sarebbero state soggette alla visceralità dei sentimenti, incapaci di etica e di responsabilità. Ne trovo i segni nel nuovo slogan coniato da Giuliano Ferrara, la cui scelta di vita che reputo sincera non è ben servita dalla lunghissima consuetudine con i trucchi e le messe in scena della retorica e della politica. L’aborto è maschio. Bene, verrebbe da dire, hai finalmente accolto quelle osservazioni di tante donne, a cominciare da Carla Lonzi, di alcuni uomini come Alberto Leiss, perfino di un papa come Giovanni Paolo II, che dicono che la scelta di aborto di una donna è perlomeno in relazione a un uomo. Ma no, dire l’aborto è maschio significa dire che tu sei la povera donna che non capisce, si fa irretire dai soliti bastardi, solo noi ti salveremo dalla catastrofe morale. Altro che responsabilità, altro che pensare all’amore e al sesso tra donne e uomini, mettere in discussione, almeno riconoscere il segno rapinoso, strutturato sul dominio della sessualità maschile.
Ci si stupisce che le donne si ribellino?
Che si dica “la 194 non si tocca”?
Discussa e discutibile – sono tra quelle che hanno sostenuto la depenalizzazione – la 194 è una legge molto ben costruita di cui nessuno conosce il testo. In nessun punto si sostiene che l’aborto è un diritto, il diritto è alla “procreazione cosciente e responsabile”, a fondarlo è l’autodeterminazione della donna. In nessun punto si dice che l’aborto terapeutico è ammesso per malformazioni del feto, ma esclusivamente per problemi della salute fisica e psichica della donna. L’aborto terapeutico mi turba, da sempre. Ma mi chiedo, si può imporre a qualcuno la vita aspra, a volte piena di benedizioni ma spesso dura e desolata, di genitore di figli gravemente disabili? E perché si deve pensare che sia solo il desiderio del figlio perfetto a guidare le scelte, perché non pensare che esista un sincero desiderio di proteggere dal dolore? Perché ci muoviamo per schemi, e non vediamo ciò che avviene?
Ma questi aspetti esulano dalla politica, di cui volutamente ho evitato il linguaggio. Eppure le questioni eticamente sensibili sono al centro della campagna elettorale che incombe, non a caso i maggiori partiti, Partito Democratico e Partito della libertà vorrebbero occultarli. E gli altri corrono il rischio di scivolare in slogan risaputi e ripetitivi.
A sinistra basta dire la “194 non si tocca”? Perché non parlare di libertà? Di capacità etica? Di amore?